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Il genocidio asburgico. 1866-1918, Come il governo di Vienna progettò e portò a compimento un genocidio di Italiani

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Haxeln
view post Posted on 10/8/2016, 19:01




no no, non ha negato nulla, l'unica cosa non era d'accordo a mettere un link di un forum perché sarebbe risultato poco credibile, allora ho messo la fonte originale messo da Rinascimento
 
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view post Posted on 26/11/2016, 01:26
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http://www.ilprimatonazionale.it/cultura/g...n-sapere-53464/

"L’Unità italiana del 1861 e l’acquisto del Veneto, avvenuto con la controversa Terza Guerra d’Indipendenza nel 1866, intimorirono il governo di Vienna e ne scatenarono gli intenti persecutori verso gli Italiani rimasti sudditi della Corona austriaca: Trentini, Giuliani e Dalmati. Se Radetzki proclamò che «bisogna slavizzare la Dalmazia per toglierla alla pericolosa signoria intellettuale di Venezia alla quale le popolazioni italiane si rivolgono con eccessiva ammirazione», nel Consiglio della Corona del 12 novembre 1866 l’Imperatore Francesco Giuseppe dette precisa disposizione di «opporsi in modo risolutivo all’influsso dell’elemento italiano ancora presente in alcuni Kronländer e di mirare alla germanizzazione o slavizzazione, a seconda delle circostanze, delle zone in questione con tutte le energie e senza alcun riguardo».

Nei decenni successivi, l’opera snazionalizzatrice degli Asburgo verso Trentini, Giuliani e Dalmati si estrinsecò in varie misure amministrative, quali: la germanizzazione o la slavizzazione dei cognomi italiani da parte delle parrocchie (nell’Impero Asburgico l’anagrafe era gestita dal clero); il sostegno attivo delle autorità imperiali alle forze politiche tedesche e slave nelle elezioni municipali e dietali, fino al ricorso a veri e propri brogli (in tal modo le autorità agevolarono la conquista da parte dei partiti slavi della maggioranza all’interno della Dieta di Dalmazia nel 1870 e delle principali municipalità dalmate, quali Sebenico nel 1873 e Spalato nel 1882); la tolleranza, da parte delle autorità di polizia, delle violenze degli attivisti slavi nei confronti di singoli cittadini italiani e di associazioni e istituzioni culturali delle comunità italiane; lo scioglimento delle associazioni culturali italiane quale la “Pro Patria” di Trieste, attiva tra il 1885 e il 1890; l’abolizione dell’insegnamento della lingua italiana in ben 450 scuole su 459 dell’intera Dalmazia; la falsificazione palese e grossolana dei dati dei censimenti, in modo da sminuire il numero degli Italiani a favore degli Slavi; la repressione violenta delle proteste popolari italiane, come avvenne a Trieste con gli eccidi del 1868, del 1903 e in altre occasioni.

Anche dopo la stipula del Trattato della Triplice Alleanza, l’atteggiamento di Francesco Giuseppe verso l’Italia non si modificò sostanzialmente. Nel 1904 Austria-Ungheria e Russia firmarono un patto segreto con cui i due Stati si impegnavano alla neutralità assoluta in caso di conflitto con una terza potenza. Questo patto segreto non fu comunicato all’Italia, ma solo alla Germania, perché, come illustrò Francesco Giuseppe in una sua lettera a Guglielmo II di Hohenzollern, esso era stato immaginato proprio in vista di un conflitto con l’Italia. Dopo il terremoto di Messina (1909) e durante la guerra di Libia (1911) il capo di stato maggiore austriaco Conrad von Hötzendorf richiese per due volte un attacco a tradimento contro l’Italia, paese alleato.

AsburgoSeguirono reiterate violazioni da parte dell’Austria-Ungheria dell’art. 7 del trattato della Triplice Alleanza, che prevedeva l’obbligo della “mutua informazione” e della “compensazione reciproca” in caso di “modifiche dello statu quo territoriale in Oriente”. Ciò avvenne in occasione dell’annessione unilaterale austriaca della Bosnia-Erzegovina nel 1908, in violazione dei pregressi accordi con cui l’Austria si era impegnata a mantenere unicamente un protettorato; e dell’aggressione austriaca alla Serbia nel luglio 1914, a riguardo della quale l’Ambasciatore austriaco a Roma scrisse: «Dato che il carattere della Triplice Alleanza è puramente difensivo; dato che le nostre misure contro la Serbia possono precipitare una conflagrazione europea; e infine, dato che non abbiamo preventivamente consultato questo governo, l’Italia non sarebbe stata obbligata a unirsi a noi nella guerra». Per inciso, anche lo scoppio della Prima Guerra Mondiale dimostra che la maggior parte delle guerre, a discapito della “vulgata” che tende ad attribuirne la responsabilità agli Stati Nazionali, sono in genere il frutto delle ambizioni sopraffattrici di potenze imperialistiche, spesso plurinazionali, a danno di Stati Nazionali."
 
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view post Posted on 26/11/2016, 11:14
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Interessante, Poemerium. L'articolo merita di essere postato per intero...

Gli Asburgo e i Rothschild: quello che il complottismo anti-italiano finge di non sapere
Aggiunto da Redazione il 24 novembre

Roma, 24 nov – Francesco Giuseppe Carlo d’Asburgo-Lorena, Imperatore d’Austria e Re Apostolico d’Ungheria, nei suoi 86 anni di vita (1830-1916) e 68 di regno (dal 1848 fino alla morte), ha segnato un’intera epoca della storia europea, non solo dal punto di vista politico e diplomatico, ma anche della cultura e del costume. Una variegata corrente di pensiero, innamorata dei miti letterari e delle idealizzazioni storiche, ha identificato in Francesco Giuseppe l’incarnazione del mito mitteleuropeo della Felix Austria, onirica rappresentazione di un mondo idilliaco in cui, prima del prevalere dei “nazionalismi”, popoli ed etnie assai vari per origine, lingua e religione avrebbero pacificamente convissuto in clima di tolleranza e di concordia sotto il saggio e paternalistico governo di un anziano Imperatore, espressione di un’antica e legittima dinastia, coadiuvato da una efficiente burocrazia e da forze armate salde e fedeli.

Fin qui il mito, che ha come corollario l’immancabile nostalgia per quel “Mondo di ieri” (Stefan Zweig) travolto dalla sconfitta degli “Imperi Centrali” di fronte ai “nazionalismi” e dalla conseguente ascesa dei totalitarismi degli anni ’20 e ’30. Con il sottinteso, quanto mai utile politicamente ai poteri forti che stanno dietro il processo di integrazione europea, che le entità plurinazionali (ieri l’Impero Asburgico, oggi l’Unione Europea) garantiscono migliori condizioni di pace, benessere e proficua convivenza tra i popoli, mentre gli “Stati Nazionali” sarebbero per loro intrinseca natura oppressivi all’interno e propensi a scatenare conflitti all’esterno. Un ulteriore corollario, caro a certi ambienti cattolici tradizionalisti o genericamente conservatori, innamorati della “teoria del complotto” presente nel pensiero politico europeo dall’abate Barruel in poi, consiste nella visione dello Stato Nazionale moderno (in particolare l’Italia post-risorgimentale, inopinatamente ragguagliata alla Francia della Grande Rivoluzione con cui politicamente e culturalmente ben poco ebbe a spartire) come quintessenza di ogni nefandezza “settaria”, “giacobina” e “nazionalista”, a fronte dell’irenico mondo delle “monarchie tradizionali”, plurinazionali e fondate sul “diritto divino”.

A una corretta analisi storica, questa oleografica quanto ingenua ricostruzione finisce per dissolversi come neve al sole. Risulta in primis totalmente abusivo attribuire una presunta e mitologica “legittimità tradizionale”, in senso imperiale, alla casata d’Asburgo. Già nel 1273 fu proprio un Asburgo, l’Imperatore Rodolfo, a liquidare le pretese del Sacro Romano Impero sull’Urbe, capitale naturale dell’Impero e del Regno Italico, a tutto vantaggio del Papa e contro l’autentica tradizione ghibellina imperiale, per esempio di un Federico II di Svevia. L’Impero d’Austria, ormai non più Sacro Romano Impero, uscito trionfatore dal Congresso di Vienna del 1815, era il risultato di un periodo di rafforzamento e consolidamento dei domini asburgici, avvenuto in grazia di intrighi diplomatici settecenteschi, rovesciamenti di alleanze e opportunismi vari comprensibilissimi alla luce della “Realpolitik” di ogni tempo, ma poco coerenti con l’enfasi di certi cantori della superiorità etica del legittimismo. Basti pensare ad episodi quali la concessione della mano di Maria Luigia al “plebeo” Bonaparte, eletto quale alleato principale dell’Impero, salvo poi rivolgersi contro quest’ultimo dopo la sfortunata campagna di Russia.

Certe “teorie del complotto” contro-rivoluzionarie vengono clamorosamente smentite dallo strettissimo legame politico-finanziario tra Casa d’Austria e banca Rothschild, vera e propria centrale finanziaria della “Santa Alleanza”, che con il suo decisivo sostegno economico aveva avuto la meglio sulla Francia di Napoleone. I Rothschild, già padroni delle finanze dell’Impero d’Austria e dello Stato Pontificio, acquisirono il controllo delle finanze del Regno delle Due Sicilie quale premio per il decisivo sostegno alla spedizione austriaca contro gli insorti Carbonari del 1820-21. La falsificazione storica prosegue con la nostalgica e infondata rappresentazione di un Lombardo-Veneto ben amministrato dall’Austria. Il grande storico Giorgio Candeloro ricorda che il regime doganale imposto ai sudditi Veneti e Lombardi prevedeva dazi per l’esportazione verso il resto dell’Impero ma nessun dazio in entrata dal resto dell’Impero verso il Lombardo-Veneto: una condizione di vero e proprio sfruttamento coloniale che, unitamente all’oppressione poliziesca esercitata sulle popolazioni, fu all’origine dei moti del 1848-49, di cui fu protagonista principalmente il popolo delle grandi città (si rammentino le Cinque Giornate di Milano, le Dieci Giornate di Brescia e l’insurrezione di Venezia) ma anche delle città minori e delle campagne (si pensi solo all’insurrezione del Cadore).

Peraltro la Lombardia era floridissima già prima di essere annessa nel 1706 dagli Asburgo, che con essa si assicurarono un cospicuo gettito fiscale. Regioni come il Veneto e il Trentino-Alto Adige erano poverissime quando vennero annesse dall’Italia (rispettivamente nel 1866 e nel 1918) e solo sotto quest’ultima – e grazie ai suoi investimenti – hanno poi raggiunto l’attuale livello di benessere. Contrariamente a quanto una certa propaganda anti-italiana vorrebbe far credere, dopo il 1918 l’Italia contribuì notevolmente all’ulteriore sviluppo della già prospera Trieste, con un’impressionante serie di investimenti pubblici tra cui l’Università, i collegamenti stradari e ferroviari, le case popolari, i palazzi pubblici (Tribunale, Questura, etc.), il Porto Nuovo e l’Ursus, mentre fu dato nuovo sviluppo a realtà preesistenti come il Cantiere San Marco e il Lloyd Triestino.

L’Unità italiana del 1861 e l’acquisto del Veneto, avvenuto con la controversa Terza Guerra d’Indipendenza nel 1866, intimorirono il governo di Vienna e ne scatenarono gli intenti persecutori verso gli Italiani rimasti sudditi della Corona austriaca: Trentini, Giuliani e Dalmati. Se Radetzki proclamò che «bisogna slavizzare la Dalmazia per toglierla alla pericolosa signoria intellettuale di Venezia alla quale le popolazioni italiane si rivolgono con eccessiva ammirazione», nel Consiglio della Corona del 12 novembre 1866 l’Imperatore Francesco Giuseppe dette precisa disposizione di «opporsi in modo risolutivo all’influsso dell’elemento italiano ancora presente in alcuni Kronländer e di mirare alla germanizzazione o slavizzazione, a seconda delle circostanze, delle zone in questione con tutte le energie e senza alcun riguardo».

Nei decenni successivi, l’opera snazionalizzatrice degli Asburgo verso Trentini, Giuliani e Dalmati si estrinsecò in varie misure amministrative, quali: la germanizzazione o la slavizzazione dei cognomi italiani da parte delle parrocchie (nell’Impero Asburgico l’anagrafe era gestita dal clero); il sostegno attivo delle autorità imperiali alle forze politiche tedesche e slave nelle elezioni municipali e dietali, fino al ricorso a veri e propri brogli (in tal modo le autorità agevolarono la conquista da parte dei partiti slavi della maggioranza all’interno della Dieta di Dalmazia nel 1870 e delle principali municipalità dalmate, quali Sebenico nel 1873 e Spalato nel 1882); la tolleranza, da parte delle autorità di polizia, delle violenze degli attivisti slavi nei confronti di singoli cittadini italiani e di associazioni e istituzioni culturali delle comunità italiane; lo scioglimento delle associazioni culturali italiane quale la “Pro Patria” di Trieste, attiva tra il 1885 e il 1890; l’abolizione dell’insegnamento della lingua italiana in ben 450 scuole su 459 dell’intera Dalmazia; la falsificazione palese e grossolana dei dati dei censimenti, in modo da sminuire il numero degli Italiani a favore degli Slavi; la repressione violenta delle proteste popolari italiane, come avvenne a Trieste con gli eccidi del 1868, del 1903 e in altre occasioni.

Anche dopo la stipula del Trattato della Triplice Alleanza, l’atteggiamento di Francesco Giuseppe verso l’Italia non si modificò sostanzialmente. Nel 1904 Austria-Ungheria e Russia firmarono un patto segreto con cui i due Stati si impegnavano alla neutralità assoluta in caso di conflitto con una terza potenza. Questo patto segreto non fu comunicato all’Italia, ma solo alla Germania, perché, come illustrò Francesco Giuseppe in una sua lettera a Guglielmo II di Hohenzollern, esso era stato immaginato proprio in vista di un conflitto con l’Italia. Dopo il terremoto di Messina (1909) e durante la guerra di Libia (1911) il capo di stato maggiore austriaco Conrad von Hötzendorf richiese per due volte un attacco a tradimento contro l’Italia, paese alleato.

Seguirono reiterate violazioni da parte dell’Austria-Ungheria dell’art. 7 del trattato della Triplice Alleanza, che prevedeva l’obbligo della “mutua informazione” e della “compensazione reciproca” in caso di “modifiche dello statu quo territoriale in Oriente”. Ciò avvenne in occasione dell’annessione unilaterale austriaca della Bosnia-Erzegovina nel 1908, in violazione dei pregressi accordi con cui l’Austria si era impegnata a mantenere unicamente un protettorato; e dell’aggressione austriaca alla Serbia nel luglio 1914, a riguardo della quale l’Ambasciatore austriaco a Roma scrisse: «Dato che il carattere della Triplice Alleanza è puramente difensivo; dato che le nostre misure contro la Serbia possono precipitare una conflagrazione europea; e infine, dato che non abbiamo preventivamente consultato questo governo, l’Italia non sarebbe stata obbligata a unirsi a noi nella guerra». Per inciso, anche lo scoppio della Prima Guerra Mondiale dimostra che la maggior parte delle guerre, a discapito della “vulgata” che tende ad attribuirne la responsabilità agli Stati Nazionali, sono in genere il frutto delle ambizioni sopraffattrici di potenze imperialistiche, spesso plurinazionali, a danno di Stati Nazionali.

Furono intavolate trattative tra Austria-Ungheria e Italia per arrivare alle compensazioni dovute in base all’art. 7 del Trattato della Triplice Alleanza, ma il Ministro austriaco degli Esteri Stephan Buriàn assunse una posizione assai rigida, opponendo un iniziale rifiuto – poi solo parzialmente revocato – ad ogni concessione sul Trentino, precludendo la cessione di Trieste e prospettando il rinvio delle compensazioni a dopo la fine della guerra, condizione evidentemente inaccettabile per l’Italia. Conseguentemente, il 4 maggio 1915 il Ministro degli Esteri italiano Sidney Sonnino notificò a Vienna la denuncia della Triplice Alleanza. È appena il caso di rammentare che la tesi, sostenuta da Francesco Giuseppe, di un presunto “tradimento” italiano nel 1915 è oggi totalmente smentita dalla stessa storiografia austriaca (Oswald Überegger: «Proprio quei circoli austro-ungarici che, sia allo scoppio della guerra sia, soprattutto il 23 maggio 1915, parlarono con maggior sdegno di “tradimento” avevano mostrato di ragionare in modo del tutto simile allorché la questione aveva riguardato i loro interessi»). Semmai, alla luce di quanto sopra esposto, si potrebbe e si dovrebbe parlare di tradimento austriaco, se avesse senso applicare queste categorie morali ai rapporti tra Stati.

Il 24 maggio 1915 l’Italia scendeva quindi in guerra, usando le parole del proclama del Re alle Forze Armate, per «piantare il tricolore d’Italia sui termini sacri che natura pose a confine della Patria nostra» e per «compiere, finalmente, l’opera con tanto eroismo iniziata dai nostri padri». Dopo lo scoppio delle ostilità, l’Austria-Ungheria deportò decine di migliaia di propri sudditi trentini, giuliani e dalmati nei campi di concentramento di Katzenau, Wagna, Pottendorf, Steinklamm, Bruck an der Leitha, dove essi affrontarono fame, malattie e morte. Sotto la forca di Francesco Giuseppe, come prima di loro Amatore Sciesa, i Martiri di Belfiore, Guglielmo Oberdan e tanti altri martiri del Risorgimento, affrontarono il supremo sacrificio i patrioti irredenti Fabio Filzi, Cesare Battisti e Nazario Sauro. Francesco Giuseppe, non rimpianto se non da chi ignora totalmente la verità storica, si spense il 21 novembre 1916, presago della sorte che la storia avrebbe riservato al suo Impero, destinato a essere cancellato da quell’Italia che il suo successore Carlo d’Asburgo aveva definito “nemico ancestrale”. Purtroppo, la pulizia etnica avviata con metodi burocratici da Francesco Giuseppe nei confronti degli Italiani dell’Adriatico orientale (Istria, Fiume e Dalmazia) fu portata a termine dopo il 1943, con metodi violenti, dal suo erede (geo)politico Josip Broz Tito.

Luca Cancelliere

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CITAZIONE
È appena il caso di rammentare che la tesi, sostenuta da Francesco Giuseppe, di un presunto “tradimento” italiano nel 1915 è oggi totalmente smentita dalla stessa storiografia austriaca (Oswald Überegger: «Proprio quei circoli austro-ungarici che, sia allo scoppio della guerra sia, soprattutto il 23 maggio 1915, parlarono con maggior sdegno di “tradimento” avevano mostrato di ragionare in modo del tutto simile allorché la questione aveva riguardato i loro interessi»). Semmai, alla luce di quanto sopra esposto, si potrebbe e si dovrebbe parlare di tradimento austriaco, se avesse senso applicare queste categorie morali ai rapporti tra Stati.

Finalmente, gli austriaci riconoscono di avere commesso violazioni contro l'Italia.
 
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Rinascimento
view post Posted on 26/11/2016, 22:03




Buona sera amici.

Chiedo scusa per la mia prolungata assenza, ma sono stato impegnato attivamente su altri fronti.

Fortunatamente, si parla più che in passato, quantomeno in Rete, di questo argomento.

Cito un articolo, fra gli altri.

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Lo scrittore e critico letterario Claudio Magris ha coniato la fortunata espressione di “mito asburgico” per esprimere l’immagine, sorta in ambito letterario presso alcuni scrittori della Mitteleuropa, d’un impero asburgico ordinato e cosmopolita, capace d’assicurare la convivenza fra i suoi vari popoli componenti.
Si tratta però appunto d’un “mito” d’origine letteraria: la realtà storica era ben diversa.
Il Magris stesso ha dichiarato che il suo libro nasce appunto come critica e demolizione del mito stesso, nonostante esso sia stato ben presto frainteso e considerato da certuni quale una sua esaltazione.
L’impero austriaco ha avuto nel secondo dopoguerra una ricostruzione letteraria che ha colpito l’immaginario collettivo, ma che trova ben poca corrispondenza nella realtà storica.
Il divario esistente fra la storia effettiva della compagine statale asburgica e la sua visione immaginaria corrisponde, all’incirca, quello fra storiografia e letteratura.
D’altronde, come ha osservato Magris stesso, la medesima letteratura che ha creato il “mito asburgico” si presenta in modo caratteristicamente ambivalente nel suo giudizio sullo scomparso stato imperiale, tanto che il suo autore più rappresentativo, il Musil [1], nel suo L’uomo senza qualità, evidenzia il sostanziale vuoto su cui poggia l’impero nel vano tentativo del comitato creato per i festeggiamenti dell’anniversario di Francesco Giuseppe di reperire un valore unificante.
Questo testo offre un’immagine tagliente dell’impero asburgico prossimo al tracollo, in una trama in cui all’uomo senza qualità del romanzo s’affianca il finto perno dell’azione (o meglio inazione) drammatica, l’inconcludente “Azione parallela” volta a celebrare i 70 anni di regno di Francesco Giuseppe (ironicamente, Musil immagina che i preparativi incomincino prima della guerra, in attesa del 1918, data del “giubileo imperiale” suddetto, e che sarà invece quella della dissoluzione dell’impero), sullo sfondo di un’entità statale amletica, che non sa chi è e che cosa vuole fare.
È rimasta giustamente celebre la descrizione della “Cacania”, ossia dell’Austria-Ungheria (Cacania è un neologismo musiliano creato da kaka, pronuncia dell’abbreviazione K.K. di Kaiserlich-Königlich, “imperial-regio”) offerta da questo grande scrittore viennese, con la sua intelligente e corrosiva ironia:
«Questo concetto dello stato austro-ungarico era cosî stranamente congegnato che sembra quasi vano tentar di spiegarlo a chi non ne abbia personale esperienza.
Non era fatto di una parte austriaca e di una parte ungherese che, come si potrebbe credere, si completavano a formare un tutto, ma di un tutto e di una parte, cioè di un concetto statale ungherese e di un concetto statale austroungarico, e quest'ultimo stava di casa in Austria, per cui il concetto statale austriaco era in fondo senza patria.
L'austriaco esisteva soltanto in Ungheria, sotto forma di avversione; a casa sua si dichiarava suddito dei regni e dei paesi della Monarchia austroungarica rappresentati alla Camera, che sarebbe come dire un austriaco più un ungherese meno quest'ungherese; e non lo faceva per entusiasmo, ma per amore di un'idea che gli ripugnava, perché non poteva soffrire gli ungheresi, così come gli ungheresi non potevan soffrire lui, cosicché la faccenda diventava ancor più complicata.
Molti perciò si definivano semplicemente polacchi, cèchi, sloveni o tedeschi, e questo produceva ulteriori divisioni ».[2]
Il “padre nobile” della storiografia americana sull’Austria, Arthur J. May, nella sua importante ed influente opera The Passing of the Habsburg Monarchy è reciso nel giudicare lo stato austroungarico una realtà istituzionale in preda ad una grave crisi interna.
Egli inoltre respinge il mito asburgico, non avendo problemi a riconoscerlo come una realtà posteriore all’impero ed indotta da cause accidentali ed esterne allo stesso.
May ritiene che questa rievocazione nostalgica ed immaginosa dello scomparso stato asburgico sorga soltanto quando Stalin s’impadronisce, al termine della seconda guerra mondiale, di gran parte dei vecchi territori imperiali.[3]
In Italia è abbastanza conosciuto il ruolo dell’Austria asburgica nel mantenere l’Italia divisa al suo interno e sottomessa allo straniero.
È invece meno diffusa la consapevolezza di come l’impero abbia direttamente attentato all’identità nazionale italiana, proponendosi obiettivi di snazionalizzazione e di vera e propria sostituzione etnica.
Già il Lombardo-Veneto si trovò sotto il dominio asburgico in condizioni di crescente dipendenza dal governo centrale viennese[4] e di sua germanizzazione imposta dall’alto, come denunciavano i suoi stessi rappresentanti politici e la sua società civile.[5]
Questo avvenne per la struttura interna stessa dell’impero asburgico, poiché non fu un evento accidentale od una misura secondaria, ma corrispose alla dinamica naturale di questo tipo di stato.
In sostanza, l’autorità imperiale cercava d’inserire il Lombardo-Veneto all’interno di un’area storica, geografica, culturale ed etnica ad esso estranea, la cosiddetta “Mitteleuropa”, subordinandone l’economia e la società agli interessi di quella austriaca ed imponendo leggi e misure contrarie alle sue tradizioni ed interessi.[6]
Significativamente, esso veniva sottoposto ad un intensissimo sfruttamento economico da parte del potere centrale viennese, che si serviva delle risorse locali, drenate con la tassazione, per finanziare le regioni d’oltralpe.[7]
Il feldmaresciallo austro-boemo Josef Radetzky giunse a minacciare gli abitanti del Lombardo-Veneto di far ripetere in Italia le cosiddette “Stragi di Galizia”.
In questa regione asburgica una grave crisi agraria determinò nel 1846 un’estesa insurrezione di contadini ruteni, che condusse al massacro di diverse centinaia di proprietari terrieri polacchi.
La rivolta non incontrò nessuna efficace resistenza dalle autorità militari e di polizia asburgiche e si sospettò che gli amministratori imperiali avessero fomentato e favorito l’insurrezione, per poter meglio controllare la regione galiziana aizzando tra di loro le sue diverse etnie.
Anche nel Lombardo-Veneto vi furono nel 1846-1847 diversi tumulti provocati dalla crisi agraria, che furono attribuiti da buona parte dell’opinione pubblica all’azione sobillatrice del governo.[8] Scrive uno studioso competente sulla materia come lo storico Marco Meriggi: «La definizione di germanizzazione, che i contemporanei coniarono e che quasi tutti gli storici hanno ripreso, trovandosi a descrivere la caratteristica saliente delle dinamiche politiche dell’Impero nel periodo in questione, è sicuramente fondata».[9]
Il “regno” del Lombardo-Veneto chiudeva la propria esistenza nel 1866. Rimanevano però sotto il dominio asburgico altre regioni abitate da italiani: il Trentino-Alto Adige, la Venezia Giulia, la Dalmazia.
L’imperatore Francesco Giuseppe decise pertanto di procedere alla loro de-italianizzazione, tramite la sistematica “germanizzazione e slavizzazione” di queste terre.
La sua decisione in tale senso fu formalizzata nel Consiglio della Corona del 12 novembre 1866. Il verbale recita testualmente: «Sua Maestà ha espresso il preciso ordine che si agisca in modo deciso contro l’influenza degli elementi italiani ancora presenti in alcune regioni della Corona e, occupando opportunamente i posti degli impiegati pubblici, giudiziari, dei maestri come pure con l’influenza della stampa, si operi nel Tirolo del Sud, in Dalmazia e sul Litorale per la germanizzazione e la slavizzazione di detti territori a seconda delle circostanze, con energia e senza riguardo alcuno».[10]
L’ordine imperiale è abitualmente tanto conosciuto dagli storici quanto sconosciuto al grande pubblico, ad ulteriore riprova del contrasto fra la realtà storica ed il falso “mito asburgico”.
La citazione del verbale del consiglio dei ministri asburgico del 12 novembre 1866, con l’ordine categorico di procedere alla germanizzazione e slavizzazione delle popolazioni italiane suddite dell’impero, si ritrova in innumerevoli studi, compiuti da storici di differenti nazionalità, in anni diversi e nel corso di studi indipendenti fra loro.[11]
Si può riportare a suo commento il parere espresso dal professor Luciano Monzali nel suo fondamentale studio sugli italiani di Dalmazia.
«I verbali del Consiglio dei ministri asburgico della fine del 1866 mostrano l'intensità dell'ostilità antitaliana dell'imperatore e la natura delle sue direttive politiche a questo riguardo.
Francesco Giuseppe si convertì pienamente all'idea della generale infedeltà dell'elemento italiano e italofono verso la dinastia asburgica: in sede di Consiglio dei Ministri, il 12 novembre 1866, egli diede l'ordine tassativo di “opporsi in modo risolutivo all'influsso dell'elemento italiano ancora presente in alcuni Kronländer e di mirare alla germanizzazione o slavizzazione, a seconda delle circostanze, delle zone in questione con tutte le energie e senza alcun riguardo”».[12]
La decisione di Francesco Giuseppe non segnava comunque una frattura radicale con la politica austriaca del recente passato, sia perché, come si è visto, già nel Lombardo-Veneto s’erano attuate politiche di germanizzazione, sia giacché questo famoso verbale del 1866 dava corpo a progetti coltivati in precedenza da altissime personalità dell’impero.
Ad esempio, già il feldmaresciallo Radetzky aveva progettato una pulizia etnica in Dalmazia, affermando: «Bisogna slavizzare la Dalmazia per toglierla alla pericolosa signoria intellettuale di Venezia alla quale le popolazioni italiane si rivolgono con eccessiva ammirazione».[13]
Minacce analoghe contro gli italiani erano giunte ben prima del 1866 anche da un governatore di Trieste, il generale Ferencz Gyulai (poi feldmaresciallo, vicerè del Lombardo-Veneto e comandante l’esercito austriaco nella guerra del 1859).
Nel 1848 fu pubblicato sul giornale ufficiale governativo l’Osservatore Triestino un articolo di sua ispirazione, in cui s’avvisava in termini minatori che era possibile incitare le masse slave dell’Istria contro gli italiani, provocando una guerra civile.[14]
L’idea espressa dal Gyulai era quindi analoga, ancora una volta, allo schema delle “Stragi di Galizia”, con il proposito di sobillare un’etnia più fedele all’impero per aggredire un’altra che desiderava l’indipendenza.
Per gli intenti di snazionalizzazione prefissi dal consiglio dei ministri imperiale nel 1866 più che di novità si può pertanto parlare di continuità.
Questo indirizzo politico si manifestò in Venezia Giulia e nel Trentino in misure ed iniziative che interessarono specialmente il settore scolastico (favorendo gli istituti in lingua tedesca o slovena, non aprendo oppure chiudendo istituti scolastici italiani) ed il pubblico impiego e la burocrazia (avvantaggiando le assunzioni e promozioni di slavi, la cui immigrazione era fortemente favorita, mentre al contempo si procedeva ad espulsioni d’italiani), mentre nella stampa s’adottarono restrizioni contro i giornali liberali (ad esempio, in un caso Il Piccolo fu soggetto a sequestro, mentre L’Indipendente fu colpito da sospensione).
La comunità italiana, talvolta per tramite del comune di Trieste o dell’episcopato di Trento, criticò sovente le scelte delle autorità statali, contestando anche la politica religiosa (con la nomina di vescovi slavi per Trieste e l’aumento d’ecclesiastici sloveni e croati, spesso sostenitori dei rispettivi movimenti nazionali, oppure le politiche di germanizzazione con connotazioni anticattoliche e vagamente protestanti nel Trentino) e l’attività della polizia (accusata d’arbitri a scapito degli italiani).
S’ebbero anche accuse di germanizzazione o slavizzazione dei nomi geografici e dei cognomi, con pubbliche proteste e denunce per iscritto.
Il contrasto politico fra l’autonomismo degli italiani ed il centralismo dello stato, in cui era egemone l’establishment austriaco, s’intersecò in tal modo alla rivalità nazionale fra italiani da una parte, austriaci e slavi del sud dall’altra.[15]
Uno dei più grandi storici italiani, Ernesto Sestan, nel suo classico studio sulla Venezia Giulia ha dato risalto alla duplice azione di difesa condotta dagli italiani di tale regione sia contro la germanizzazione proveniente dal centralismo statale sia contro la slavizzazione operata dai nazionalisti slavi e croati.
Germanizzazione e slavizzazione, ossia potere centrale e nazionalismo slavo, erano alleati fra loro, in parte perché Vienna riteneva più fedeli sloveni e croati, in parte perché il senso nazionale di questi ultimi trovava spesso espressione nel cosiddetto austro slavismo, un’ideologia politica che si prefiggeva il raggiungimento delle finalità nazionalistiche degli slavi del sud all’interno della compagine statale asburgica e con l’appoggio dell’impero.[16]
Un recente studio di Gerd Pircher contribuisce invece a documentare quale destino si progettasse per il Trentino durante il primo conflitto mondiale: una volta ottenuta la vittoria si doveva conservare parzialmente la giurisdizione militare, proclamare il tedesco come unica lingua ufficiale, imporre il tedesco nelle scuole, procedere ad una epurazione dell’amministrazione, germanizzare i toponimi e le insegne (come già s’era iniziato a fare), favorire l’immigrazione austriaca con fini di colonizzazione ecc.
Questi piani erano sostenuti da una cerchia di militari, capeggiati dall’arciduca Eugenio e dai generali Alfred Krauss e Viktor Dankl, che si proponevano la snazionalizzazione del Trentino e la sua germanizzazione, ritenendo praticamente ogni italiano un individuo potenzialmente ostile all’impero ed internando o deportando chiunque fosse ritenuto politicamente inaffidabile.[17]
Anche se coinvolse pesantemente pure il Trentino e la Venezia Giulia, la snazionalizzazione degli italiani ordinata dall’imperatore raggiunse comunque il massimo della sua pressione in Dalmazia.
Lo strumento principale per slavizzare la regione fu la cancellazione sistematica della cultura italiana nelle scuole.
Osserva il professor Monzali: «Da questi presupposti ideologici, che negavano una realtà di fatto esistente, quella delle città dalmate bilingui e multietniche […] il passaggio ad una politica di snazionalizzazione e assimilazione nei confronti dei dalmati italiani e italofili fu rapido.
La questione scolastica divenne ben presto centrale, con l’abolizione dell’italiano come lingua d’istruzione nelle scuole dalmate ed il rifiuto delle autorità provinciali e comunali nazionaliste di finanziare con soldi pubblici le scuole in lingua italiana che sopravvivevano.»[18]
A partire dal 1866 non solo nessuna scuola italiana fu aperta dalle autorità, ma finirono con l’essere chiuse quasi tutte quelle che esistevano, questo in una regione in cui in pratica da sempre la cultura scritta e dotta era stata principalmente od esclusivamente in lingua latina prima, italiana poi.
Su 84 comuni in cui era ripartita all’epoca la Dalmazia, rimasero scuole primarie in lingua italiana in uno solo, quello di Zara, mentre scomparvero in tutti gli altri: si finì così con l’avere sole 9 scuole elementari in lingua italiana su 459 complessive.
Rimasero come scuole superiori in lingua italiana soltanto due istituti, oltretutto bilingui, e solo perché legati al mondo marinaresco, in cui l’impiego dell’italiano era una tradizione fortissima ed esisteva una terminologia specifica, assente in lingua croata: si trattava infatti delle scuole nautiche di Ragusa e Cattaro.
Naturalmente, non esistevano università in lingua italiana, né in Dalmazia né in tutto il resto dell’impero. In sintesi, gli studenti italiani di Dalmazia potevano avere scuole primarie nella propria lingua solo a Zara (1 comune su 84, nonostante gli italiani fossero presenti ovunque), scuole secondarie solo Cattaro ed a Ragusa (in 2 comuni su 84, e si trattava di due soli istituti nautici), mentre il sistema scolastico terziario ossia l’università non vedeva in tutto l’impero una sola facoltà italiana.[19]
La questione scolastica, per quanto importantissima, non fu l’unica a travagliare la comunità italiana dalmata. Un’altra forma di slavizzazione della regione fu la «croatizzazione completa dell’amministrazione statale»,[20] che faceva del croato la lingua ufficiale ed in sostanza espelleva l’italiano, nonostante tentativi da parte dei rappresentanti politici italiani d’ottenere una forma di bilinguismo, che poteva essere concesso soltanto a facoltà dei singoli funzionari, che però erano quasi tutti croati.[21]
Lo stesso personale politico era stato progressivamente croatizzato, con la sostituzione continua delle vecchie amministrazioni italiane con altre croate.
Nel 1861, tutti gli 84 comuni esistenti nella regione amministrativa della Dalmazia avevano sindaci italiani. Nell’anno 1900 ne era rimasto uno solo, Zara, che significativamente fu l’unico a conservare scuole primarie italiane, chiuse invece in tutti gli altri comuni.
Allo stesso modo la Dieta provinciale, che era sempre stata a maggioranza italiana, divenne a maggioranza croata.
Le sconfitte elettorali degli italiani furono dovute in misura determinante a pesanti brogli elettorali, compiuti con la connivenza delle autorità governative, in cui ebbero il loro ruolo anche forme di corruzione ed estese violenze ed intimidazioni.
Il potere centrale viennese era infatti in grado di condizionare in maniera decisiva le elezioni di Dalmazia ed aveva scelto d’appoggiare i nazionalisti croati e la loro politica italofoba.[22]
Questo accadde anche aggredendo le tradizionali ed antichissime prerogative giuridiche della Dalmazia, le cui città, latine sin dal II-I secolo a. Cristo, avevano conservato sino al secolo XIX alcune norme e leggi risalenti all’Alto Medioevo, che ne riconoscevano determinate forme d’autonomia ed autogoverno.
Siffatte prerogative, che erano state rispettate nel corso della lunghissima dominazione veneziana, furono invece cancellate in poco tempo sotto l’impero asburgico.
Soltanto in questo modo fu possibile, nel giro di pochissimi anni, portare la Dalmazia, regione nella quale gli italiani avevano sempre avuto il ruolo di classe dirigente anche politica, grazie ad un’indiscussa superiorità culturale ed economica, ad un predominio degli croati, che se ne servirono per slavizzare a forza l’intera area.
Anche la slavizzazione della toponomastica e dell’onomastica in Dalmazia fu parte integrante del tentativo d’assimilare interamente il gruppo etnico italiano.
La toponomastica dalmata era abitualmente italiana sulla costa e sulle isole, slava all'interno, tuttavia, essendo sempre stata quella italiana la lingua di cultura, tradizionalmente anche i nomi croati erano trascritti in forma italiana.
Bisogna ricordare inoltre che l’intero territorio dalmata ha avuto un plurisecolare insediamento latino ben prima che vi giungessero e s’infiltrassero, lentamente, gruppi d’invasori od immigrati slavi.
In breve, fin dal II secolo a.C. queste aree erano interamente latinizzate, mentre invece le prime presenze slave in Dalmazia risalgono al VII secolo d.C. e rimangono piuttosto deboli sino al secolo XIV.
La toponomastica latina ossia italiana era quindi originaria ed anteriore di gran lunga a quella slava.
La snazionalizzazione in corso dopo il 1866 condusse ad una cancellazione di nomi italiani oppure all’imposizione d’un bilinguismo anche laddove ci si era sempre serviti della forma italiana.
La Luogotenenza della Dalmazia giunse al punto d’emettere un decreto, nel 1912, che dichiarava abrogati per sempre i nomi italiani di 39 località che erano state interamente croatizzate.
Lo stravolgimento della toponomastica riguardava gli atti del catasto e le stesse carte geografiche, con una slavizzazione pervasiva.[23]
Al contempo si procedeva ad una trasformazione in forma slava persino dei cognomi. Scriveva lo storico Attilio Tamaro, autore fra l’altro d’una monumentale Storia di Trieste: «Cooperavano a questo sistema di snaturamento dei lineamenti storici ed etnici della Regione Giulia e della Dalmazia i preti.
I vescovi delle provincie, fuorché quello di Parenzo, ligio però con cieca devozione al Governo austriaco, erano tutti slavi, per espressa volontà di Vienna.
Come tali, per mezzo dei seminari vescovili e per mezzo delle loro relazioni con le provincie dell'interno, aumentarono con grande intensità la produzione di sacerdoti slavi e, approfittando dello scarso numero di preti italiani che le provincie potevano dare, empirono con quelli tutte le parrocchie, anche le italiane.
Tengono i parroci in Austria i registri dello stato civile. Gli slavi, non curanti delle proteste degli abitanti, forti della protezione del Governo, con cui erano organicamente collegati nell'opera e nel fine, slavizzarono i cognomi nei libri delle nascite, in quelli matrimoniali ed in quelli delle morti.
Il fine era di ottenere dei dati statistici, dei documenti ufficiali che, per una dimostrazione necessaria alla politica del Governo, sembrassero comprovare o la non esistenza o la graduale estinzione dell'italianità.».[24]
Un’altra forma ancora di slavizzazione riguardò la chiesa cattolica stessa, con la liturgia, i testi sacri, il clero.
Il legame fra trono ed altare era stretto nell’impero, specie dopo il concordato del 1855 che concedeva all’imperatore notevole ingerenza negli affari ecclesiali, e gli ecclesiastici si potevano considerare in una certa misura funzionari imperiali.
Inoltre, i croati ebbero per tutto il secolo XIX come capi del proprio movimento nazionalista proprio preti e vescovi.
L’aspetto più visibile e più sentito da larga parte della popolazione italiana di tale operazione di slavizzazione fu l’introduzione forzata d’un rito in lingua slava, il cosiddetto glagolitico.
Si trattava d’una forma di liturgia sorta in era moderna in ambito cattolico ma per imitazione della liturgia ortodossa, che era stato tacitamente tollerato dalle autorità ecclesiastiche della Chiesa ma era rimasto limitato a piccole zone.
Nel secolo XIX esso era comunque praticamente scomparso, quantomeno nelle terre di popolamento italiano della Venezia Giulia e della Dalmazia.
La Curia pontificia, e per essa i papi Leone XIII e Pio X, richiamarono i sostenitori del glagolitico ai principi del rito latino e li diffidarono dalla reintroduzione della liturgia paleoslava laddove non fosse mai stata praticata.
Nonostante l’opposizione delle popolazioni italiane della Dalmazia e la diffidenza dell’autorità pontifica stessa, la liturgia romana in lingua slava (anziché latina) finì con l’essere introdotta sotto la pressione del clero nazionalista croato.
La diffusione della liturgia in lingua slava, che s’accompagnò anche a prediche, canti ecc. in croato, fu un modo con cui questi nazionalisti tentarono di slavizzare a forza le popolazioni italiane.
Il culto glagolitico non solo fu reintrodotto, ma venne imposto anche in località che non l’avevano mai conosciuto ed in cui gli abitanti erano in stragrande maggioranza italiani. Il malcontento fu naturalmente molto forte fra le popolazioni, che sovente preferirono abbandonare le funzioni religiose in rito glagolitico.
L’isola di Neresine fu teatro di ripetuti tentativi di slavizzazione nel culto religioso, in contrasto all’ortodossia cattolica, alle consuetudini ivi vigenti ed all’esplicita volontà degli abitanti.
Un frate croato, tale Smolje, pretese di celebrare la messa in glagolitico nella parrocchia di Neresine, la domenica 22 settembre 1895, determinando l’abbandono della cerimonia da parte di tutti i presenti e l’inizio di un vero tumulto.
Questo stesso sacerdote pretendeva d’impartire il battesimo in croato, in modo da slavizzare i nomi, rifiutandosi di farlo in latino anche qualora fosse direttamente richiesto dal padre del bambino.
Il padre guardiano del convento francescano di Neresine, Luciano Lettich, pretese d’imporre il croato alla cerimonia di sepoltura delle salme dei coniugi Sigovich, Antonio e Nicolina Sigovich, provocando da parte dei parenti e degli altri fedeli l’abbandono volontario del rito. Si può citare un altro episodio fra i tanti, accaduto nella seconda domenica d'aprile de1 1906, quando un frate croato pretese di celebrare in rito glagolitico nella chiesa di San Francesco di Cherso, isola prettamente italiana di storia e cultura.
I fedeli, dinanzi a questa celebrazione, che appariva loro come un abuso nazionalistico, abbandonarono in massa l’edificio religioso, lasciando da solo il frate croato.
Dopo queste ed altre vicende simili, gli abitanti di Neresine e di altre località minacciate di slavizzazione forzata (Ossero, Cherso, Lussinpiccolo) s’appellarono inutilmente al vescovo di Veglia, Mahnich. Vista l’inanità dei loro tentativi presso il presule slavo, decisero di fare ricorso direttamente a Roma.
La gravità dei fatti riferiti spinse Pio X ad intervenire, rimuovendo Mahnic dal suo incarico di vescovo.
Anche in seguito il Vaticano dovette intervenire direttamente per denunciare e condannare sia l’abuso liturgico del ricorso al rito glagolitico, sia l’appoggio diretto di sacerdoti slavi al nazionalismo sloveno e croato, come avvenne ad esempio il 17 giugno 1905, quando il Cardinale Segretario di Stato, per ordine del papa Pio X, trasmise una lettera dura e preoccupata al ministro generale dell’ordine dei frati minori francescani, con l’ordine preciso d’intervenire in modo energico per porre termine al comportamento dei francescani croati in Dalmazia, che operavano per introdurre la propria lingua nazionale nella liturgia.
La stessa chiesa cattolica non vide per nulla con favore la pretesa dei nazionalisti croati di ripristinare il rito glagolitico, sia per ragioni strettamente liturgiche, sia perché spesso tale richiesta proveniva da panslavisti con palesi simpatie per il cristianesimo greco-ortodosso. In conclusione ed in sintesi, il glagolitismo ricomparso dopo il 1848 fu quindi un’innovazione liturgica imposta da nazionalisti slavi con cariche ecclesiastiche, che ferì profondamente i sentimenti sia nazionali, sia religiosi dei cattolici italiani di Dalmazia, i quali si videro obbligati a riti in lingua straniera e di dubbia conformità all’ortodossia cattolica.[25]
Le persecuzioni rivolte agli italiani per cercare di costringerli ad assimilarsi ai croati compresero anche l’esercizio della violenza, che divenne praticamente endemica nei loro confronti, con aggressioni quotidiane alle persone od alle proprietà italiane:
«Nel 1910, a Cittavecchia, gente sconosciuta penetra di notte nei locali dell'Unione italiana dalmata, scassinando le porte: ruba e getta in mare qualche specchio, due quadri veneti storici, un busto di Dante, la lampada, un orologio da muro. È un vandalismo che urta. A Sebenico, un operaio regnicolo, che, interrogato per via in croato, risponde in italiano che non capisce, è aggredito e malmenato. Per questi usi il podestà di Sebenico ha potuto un giorno consigliare i croati di Zara: “Fratelli zaratini! Fate come noi a Sebenico: scendete nelle strade, con le pistole in pugno, e sparate. Gli italiani saranno buoni. Se c'è bisogno di me chiamatemi: verrò con voi”. Sono episodi di ogni giorno.»[26]
Le testimonianze sulla diffusione massiva della violenza contro gli italiani da parte dei nazionalisti croati nella Dalmazia asburgica sono numerose e dettagliate, descrivendo un contesto nel quale anche la polizia era connivente con le aggressioni italofobe, talora mortali:
«La pubblica amministrazione era terrorizzata; la polizia dei vari municipi era un congegno di partito. A Spalato un poliziotto del Comune ha ucciso con un colpo di rivoltella un pescatore chioggiotto; e l'omicida fu salvato dallo psichiatra; a Sebenico, un poliziotto di quel Comune ha tagliata, netta, la testa a un cittadino; a Traù un poliziotto, certo Macovan ha freddato con due sciabolate un povero operaio, di partito avverso a quello del Comune, che si trovava in istato di completa ubbriachezza. II partito croato scusava la persecuzione col dire che gli italiani rifiutavano di riconoscere il carattere nazionale croato della Dalmazia.»[27]
L’archivio storico del Ministero degli Esteri italiano serba un’ampia documentazione sui moltissimi incidenti che avvennero ad inizio Novecento non solo in Dalmazia, ma anche in Trentino e Venezia Giulia.[28]
La finalità era quella di spegnere ogni vita politica e culturale autonoma ed obbligare gli italiani dalmati a croatizzarsi.
L’impatto di questa serie combinata di misure contro gli italiani fu devastante, determinando una rapidissima diminuzione del gruppo etnico italiano di Dalmazia.
Scrive il professor Monzali: «Nei primi studi statistici austriaci non ufficiali compiuti negli anni Sessanta e Settanta, il numero dei dalmati italiani variava fra i 40 e i 50.000; nel censimento ufficiale del 1880, il loro numero scendeva a 27.305, per poi calare drasticamente nei decenni successivi; 16.000 nel 1890, 15.279 nel 1900, 18.028 nel 1910 (su una popolazione dalmata complessiva di 593.784 persone nel 1900, di 645.646 nel 1910)».[29]
Dati parziali riferiti a singole località esemplificano egregiamente l’andamento demografico complessivo sopra enunciato ed il tracollo della popolazione italiana. Si può riferire brevemente del caso di Lissa.
Questa piccola isola, latinizzata in epoca romana, rimase per lunghi secoli popolata quasi esclusivamente da dalmati autoctoni, quindi da una popolazione neolatina, prima d’entrare a far parte dei territori di Venezia, a cui appartenne ininterrottamente per molti secoli. Sino al 1797 ed a Campoformio, gli abitanti di Lissa parlavano praticamente tutti il cosiddetto “veneto da mar".
Il censimento tenutosi nell’epoca napoleonica calcolava, anche se in maniera approssimativa, gli italiani quali l’80% della popolazione di Lissa.
Rispetto a tale cifra, il primo censimento asburgico accurato, quello del 1880, vedeva già un netto declino dell’etnia italiana, che però rimaneva nettamente maggioritaria: essa era valutata al 64% del totale.
Ma dopo solo vent’anni gli italiani di Lissa apparivano quasi scomparsi. Secondo il censimento asburgico dell’anno 1900 gli abitanti di Lissa erano per il 97% slavi e solo per il 2,4% italiani.
Il censimento asburgico dell’anno 1910 confermò che il gruppo etnico italiano era ridotto al lumicino nell’isola, poiché contava solo un 2,5% degli abitanti. Riassumendo, gli italiani di Lissa erano passati dall’80% circa all’inizio del XIX secolo al 64% del 1880, infine al 2,4% del 1900.
Spicca particolarmente la differenza fra le dimensioni del gruppo etnico italiano nel 1880, con 3.292 unità (il 64%) e quello di soli vent’anni dopo ridotto a sole 199 (il 2,4%), con un calo del 94%.
Stime analoghe della diminuzione del gruppo etnico italiano si possono rintracciare in molte altre località della Dalmazia: dal 1880 al 1900, sempre sulla base dei censimenti asburgici, gli italiani calarono nell’isola d’Arbe da 567 a 223, a Cittavecchia di Lesina da 2.163 a 169, a Comisa dal 1197 a 37, a San Pietro della Brazza da 421 a 43, in una città di medie dimensioni come Spalato da 5.280 a 1.046, a Traù da 1960 a 170 ecc.
Sempre nello stesso periodo i documenti amministrativi asburgici segnalano la totale scomparsa degli italiani in una serie di località: Bua, Isto, Meleda, Sestrugno, Zirona Grande ecc.
Un’enumerazione completa dei dati statistici che descrivono il crollo della presenza italiana in Dalmazia sarebbe troppo lungo e d’altronde inutile, poiché sfonderebbe una proverbiale porta aperta: si tratta di fatti da tempo noti.[30]
Per farla breve, il numero dei dalmati italiani aveva subito in pochi anni un tracollo, sia in termini numerici assoluti, sia nel rapporto percentuale con la popolazione complessiva, come si può affermare sulla base delle stesse fonti statistiche dell’impero asburgico.
L’esito imponente di questo processo di snazionalizzazione può essere così riassunto: nel 1845 una stima delle autorità calcolava gli italiani essere il 19,7% della popolazione della Dalmazia; il censimento asburgico registrava nel 1865 un totale di 55.020 italiani, pari al 12,5% degli abitanti; il censimento del 1910 ne contava più solo 18.028, pari al 2,7% dei dalmati.
Dal 1845 al 1910 gli italiani di Dalmazia erano quindi passati dal 19,7% al 2,7% della popolazione.[31] In rapporto alla popolazione dalmata totale, la percentuale d’Italiani del 1910 era all’incirca 1/7 di quella del 1845.
La diminuzione del gruppo etnico italiano in confronto a quello dell’insieme complessivo degli abitanti di Dalmazia era stato quindi di 6/7: dal 19,7% del 1845 al 2,7% del 1910.
Il professor Luciano Monzali può parlare esplicitamente per il periodo 1866-1914 di «snazionalizzazione» subita dagli italiani di Dalmazia sotto l’azione congiunta dello stato imperiale e dei nazionalisti croati locali.[32]
Mutatis mutandis, questo giudizio può essere applicato anche alla sorte degli italiani della Venezia Giulia e del Trentino nello stessa fase storica, giacché le misure adoperate contro i dalmati di nazionalità italiana furono all’incirca le medesime di cui ci si servì anche contro giuliani e trentini.


Note Bibliografiche
[1] C. Magris, Il mito asburgico nella letteratura austriaca moderna, Torino 1963.
[2] R. Musil, L’uomo senza qualità, Torino 1972, p. 162.
[3] A. J. May, The Passing of the Hapsburg Monarchy. 1914-1918, Philadelphia (Penn.) 1966.
[4] M. Meriggi, ll regno Lombardo-Veneto, Torino 1987, p. 268.
[5] Ibidem, pp. 269-270.
[6] Ibidem, p. 100.
[7] Ibidem, pp. 271 sgg.
[8] C. A. Macartney, L’Impero degli Asburgo, 1790-1918, Milano 1976., pp. 356-359; Meriggi, Il regno, cit., p. 327. Cattaneo, Dell'insurrezione di Milano nel 1848 e della successiva guerra, cap. III, “Il generalissimo Radetzki, attorniato da uno stato maggiore di teutomani, agognava al momento di far sangue e roba, millantandosi di voler rifare in Italia le stragi di Galizia. Come dubitarne, quando si vedeva comparire nello stesso tempo in Brescia con autorità militare il carnefice Benedek, e con autorità civile il fratello del carnefice Breindl?”
[9] Meriggi, Il regno, cit., p. 100. Uno dei molti osservatori diretti di tale opera di germanizzazione, il Cattaneo, non ha avuto dubbi nel definire l’impero quale una “potenza tedesca”, che perseguiva intenti nazionalistici germanici. Cattaneo, Dell'insurrezione di Milano nel 1848 e della successiva guerra, cap. I
[10] La versione originale in lingua tedesca è la seguente: «Se. Majestät sprach den bestimmten Befehl aus, dass auf die entschiedenste Art dem Einflüsse des in einigen Kronländern noch vorhandenen italienischen Elementen entgegentreten durch geeinignete Besetzung der Stellen von politischen, Gerichtsbeamten, Lehrern sowie durch den Einfluss der Presse in Südtirol, Dalmatien und dem Küstenlande auf die Germanisierung oder Slawisierung der betreffenden Landesteile je nach Umständen mit aller Energie und ohne alle Rücksicht hingearbeitet werde. Se. Majestät legt es allen Zentralstellen als strenge Plifcht auf, in diesem Sinne planmäßig vorzugehen.» Essa si ritrova in Die Protokolle des Österreichischen Ministerrates 1848/1867. V Abteilung: Die Ministerien Rainer und Mensdorff. VI Abteilung: Das Ministerium Belcredi, Wien, Österreichischer Bundesverlag für Unterricht, Wissenschaft und Kunst 1971; la citazione compare alla Sezione VI, vol. 2, seduta del 12 novembre 1866, p. 297.
[11] Senza pretendere d’indicare esaustivamente tutti gli studi in proposito, bastino qui alcuni riferimenti essenziali: G. Novak, Političke prilike u Dalmaciji g. 1866.-76, Zagreb 1960, pp. 40-41; A. Filippuzzi, (a cura di), La campagna del 1866 nei documenti militari austriaci: operazioni terrestri, Padova 1966, pp. 396 sgg.; C. Conrad, Multikulturelle Tiroler Identität oder 'deutsches Tirolertum'? Zu den Rahmenbedingungen des Deutschunterrichts im südlichen Tirol während der österreichisch-ungarischen Monarchie, in J. Baurmann/ H. Günther/U. Knoop, (a cura di), Homo scribens. Perspektiven der Schriftlichkeitsforschung, Tübingen: Niemeyer, 1993, pp. 273-298; U. Corsini, Problemi di un territorio di confine. Trentino e Alto Adige dalla sovranità austriaca all’accordo Degasperi-Gruber, Trento, Comune di Trento 1994, p. 27; H. Rumpler, Economia e potere politico. Il ruolo di Trieste nella politica di sviluppo economico di Vienna, in R. Finzi-L. Panariti-G. Panjek (a cura di), Storia economica e sociale di Trieste, vol. II, La città dei traffici: 1719-1918, Trieste 2003, pp. 87-88; A. Cetnarowicz, Die Nationalbewegung in Dalmatien im 19. Jahrhundert. Vom «Slawentum» zur modernen kroatischen und serbischen Nationalidee, Frankfurt am Main, Berlin, Bern, Bruxelles, New York, Oxford, Wien, 2008, p. 110.
[12] L. Monzali, Italiani di Dalmazia. Dal Risorgimento alla Grande Guerra, Firenze 2011, p. 69.
[13] M. Scaglioni, La presenza italiana in Dalmazia. 1866-1943, tesi di laurea, università degli studi di Milano.
[14] B. Benussi, L'Istria nei suoi due millenni di storia, Venezia-Rovigno 1997, pp. 480 sgg.
[15] La bibliografia su questi temi è sterminata, cosicché ci si limita qui ad alcune indicazioni: B. Benussi, L’Istria nei suoi due millenni di storia, Venezia-Rovigno, 1997; B. Coceani, Un giornale contro un Impero. L’azione irredentistica de “L’Indipendente” dalle carte segrete della polizia austriaca, Trieste 1932; U. Corsini, La questione nazionale nel dibattito trentino, in A. Canavero- A. Moioli (a cura di), De Gasperi e il Trentino tra la fine dell’’800 e il primo dopoguerra, Trento 1985, pp.593-667A. Fragiacomo, La scuola e le lotte nazionali a Trieste e nell’Istria prima della redenzione, in “Porta orientale”, 29, 1959; M. Garbari, L’irredentismo nel Trentino, in R. Lill-F. Valsecchi (a cura di), Il nazionalismo in Italia e in Germania fino alla prima guerra mondiale, Bologna 1983; V. Gayda, L'Italia d'oltre confine. Le provincie italiane d'Austria, Torino 1914; A. Sandonà, L’irredentismo nelle lotte politiche e nelle contese diplomatiche italo-austriache, voll. 3, Bologna 1932-1938; A. Tamaro, Le condizioni degli italiani soggetti all'Austria nella Venezia Giulia e nella Dalmazia, Roma 1915; A. Tamaro, Storia di Trieste, Roma 1924; G. Valdevit, Chiesa e lotte nazionali: il caso di Trieste (1850-1919), Udine 1979; P. Zovatto, Ricerche storico-religiose su Trieste, Trieste 1984
[16] E. Sestan, Venezia Giulia. Lineamenti di una storia etnica e culturale, Udine 1997, pp. 91, 95-103; A. Moritsch, Der Austroslawismus. Ein verfrühtes Konzept zur politischen Neugestaltung Mitteleuropas, Wien 1996
[17] G. Pircher, Militari, amministrazione, e politica in Tirolo durante la prima guerra mondiale, Societa di Studi Trentini di Scienze Storiche, Trento 2005. Essa è la traduzione in italiano dell’opera originale Militar, Verwaltung, und Politik in Tirol in Estern Welkkrieg, Universitatsvelag Wagner, Innsbruck 1995.
[18] Monzali, Italiani di Dalmazia, cit., p. 142.
[19] G. Deuthmann, Per la storia di alcune scuole in Dalmazia, Zara 1920; A. Ara, La questione dell’Università italiana in Austria, in «Rassegna storica del Risorgimento» LX, 1973, pp. 52-88, 252-280.
[20] Monzali, Italiani di Dalmazia, cit., p. 300.
[21] Ibidem, pp. 297-301.
[22] G. Praga, Storia di Dalmazia, Varese 1981; Monzali, Italiani di Dalmazia, cit., pp. 138 sgg., 168-178.
[23] G. Dainelli, Carta di Dalmazia, Roma 1918; A. Tamaro, Le condizioni degli italiani soggetti all'Austria nella Venezia Giulia e nella Dalmazia, Roma 1915.
[24] Tamaro, Le condizioni, cit.
[25] A. Cronia, L'enigma del glagolismo in Dalmazia dalle origini all'epoca presente, in “Rivista Dalmatica”, Zara 1922; M. Lacko, I Concili di Spalato e la liturgia slava, in A. Matanić (a cura di), Vita religiosa, morale e sociale ed i concili di Split (Spalato) dei sec. X-XI. Atti del Symposium internazionale di storia ecclesiastica (Split, 26-30 settembre 1978), Padova 1982, pp. 443-482; S. Malfer, Der Kampf um die slawische Liturgie in der österreichisch- ungarischen Monarchie - ein nationales oder ein religiöses anliegen? in “Mitteilungen des Österreichischen Staatarchivs”, 1996, n. 44, pp. 165-193; J. Martinic, Glagolitische Gesange Mitteldalmatiens, Regensburg 1981; G. Valdevit, Chiesa e lotte nazionali: il caso di Trieste (1850-1919), Udine 1979; P. Zovatto, Ricerche storico-religiose su Trieste, Trieste 1984.
[26] V. Gayda, L'Italia d'oltre confine. Le provincie italiane d'Austria, Torino 1914, p. 297.
[27] R. Deranez, Alcuni particolari sul martirio della Dalmazia, Ancona 1919.
[28] Monzali, Italiani di Dalmazia, cit., p. 239.
[29] Monzali, Italiani di Dalmazia, cit., pp. 170-171.
[30] D. De Castro, Cenno storico sul rapporto etnico tra italiani e slavi nella Dalmazia, in Studi in memoria della prof. Paola Maria Arcari, Milano 1978; G. Perselli, I censimenti della popolazione dell'Istria, con Fiume e Trieste, e di alcune città della Dalmazia tra il 1850 e il 1936, Trieste-Rovigno 1993; O. Mileta Mattiuz, Popolazioni dell’Istria, Fiume, Zara e Dalmazia (1850-2002), Centro di Ricerche Storiche di Rovigno-Ades, 2005; Scaglioni, La presenza italiana, cit.
[31] Š.Peričić, O broju Talijana/talijanaša u Dalmaciji XIX. stoljeća, in Radovi Zavoda za povijesne znanosti HAZU u Zadru, n. 45/2003, p. 342.
[32] Monzali, Italiani di Dalmazia, cit., p. 142.

Scritto da Marco Vigna

http://www.nuovomonitorenapoletano.it/inde...mento&Itemid=28
 
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view post Posted on 27/11/2016, 01:47
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Sempre un piacere leggere i tuoi articoli, Rinascimento. Duole notare come prevalga ancora una narrazione storica totalmente errata di quegli accaddimenti.
 
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view post Posted on 27/11/2016, 09:32
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Ahhhh, l'articolo non lo hai scritto tu, comunque ne condivido il contenuto

p.s
accadimenti mi e' scappato con due d (salviamo gli italiani e l'italiano).... :irredentismo:
 
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view post Posted on 27/11/2016, 10:55

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Grazie come al solito del ricco intervento, Rinascimento
 
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view post Posted on 27/4/2019, 00:01
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Gli italiani erano maltrattati dai commilitoni e per di più osteggiati e perseguitati dagli ufficiali. A loro erano demandati i servizi più pericolosi ed i lavori maggiormente pesanti, mentre erano duramente puniti per le più minime mancanze e tenuti sotto una disciplina particolarmente rigida. Erano inoltre discriminati nelle onorificenze, nelle promozioni, persino nella concessione di licenze e nelle cure sanitarie. Il trattamento era comunque assai duro ed era frequentissimo che gli ufficiali si rivolgessero agli italiani con insulti razzisti di ogni sorta, che sono spesso riportati nelle memorie degli ex combattenti.

www.facebook.com/marco.vigna.3/posts/10218598808912057
 
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view post Posted on 23/8/2020, 13:29
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Francesco Giuseppe ordinò la “persecuzione” degli italiani in Trentino, Venezia Giulia e Dalmazia. Secondo alcuni storici la decisione dell’imperatore rimase solo sulla carta. Ma un’attenta ricostruzione su fonti originali dimostra che, purtroppo, non fu così. E questa politica fu alla base delle successive tensioni tra italiani e slavi…

https://www.indygesto.com/dossier/10515-il...8j0gQ7ohRNcmydE
 
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view post Posted on 6/9/2020, 17:04
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IL TRADIMENTO AUSTRIACO
Si sente talora accusare l’Italia d’aver commesso con l’ingresso nella prima guerra mondiale un presunto ed indimostrato “tradimento” dell’alleanza con l’Austria-Ungheria, il che in realtà non avvenne. È necessario conoscere e comprendere ciò che era avvenuto prima del 1915, altrimenti la decisione italiana d’entrare nel conflitto sarebbe incomprensibile.
In estrema sintesi, lo stato italiano aveva accettato già alla fine del secolo XIX d’aderire all’alleanza con l’Austria per due ragioni fondamentali: la prima era la speranza di mitigare l’opera di snazionalizzazione sistematica (vero e proprio genocidio culturale) di cui erano vittime gli Italiani del Trentino, della Venezia Giulia e della Dalmazia ad opera dell’impero; la seconda, correlata alla prima, era l’aspirazione ad ottenere le terre irredente, od almeno parte di esse, per via diplomatica. Infatti un articolo della Triplice Alleanza l’articolo VII stabiliva che l’Italia aveva diritto a compensi territoriali dall’impero asburgico nel caso che esso si espandesse nei Balcani.
Non solo ambedue queste speranza furono disattese, ma in più l’Austria violò ripetutamente ed in modo gravissimo le norme del trattato d’alleanza, anche con azioni che si possono configurare quali veri e propri atti di guerra contro l’Italia.
1) Il 13 ottobre 1904 Aehrenthal, ambasciatore asburgico a san Pietroburgo, e Lamsordv, ministro degli esteri zarista, firmarono un trattato segreto, che impegnava i due paesi a proseguire nella loro collaborazione politica, imperniata sulla volontà di conservare lo status quo nei Balcani e sull’impegno a mantenere la neutralità assoluta nel caso che una delle due parti contraenti si fosse trovata in conflitto con una terza potenza. Questo patto segreto con la Russia non fu comunicato dall’impero asburgico all’Italia, ma solo alla Germania, poiché, come spiegò Francesco Giuseppe in una sua lettera a Guglielmo II spedita il 1 novembre 1904, esso aveva proprio una finalità anti-italiana. Esso costituiva una prima violazione delle norme delle Triplice.
[Oesterreich-Ungarn und Serbien 1903-1918. Dokumente aus Wiener Archiven, Beograd, Historisches Institut, 1971-1989, documenti della seconda sezione, dd. 112, 162, 186, 195, 197, 204, 221, 234; la lettera di Francesco Giuseppe all’imperatore tedesco è invece conservata in “Die Grosse Politik der Europaischen Kabinette 1871-1914”, Berlin, Deutsche Verlagsgesellschaft fur Politik und Geschichte”, 1922-1927].
2) il capo di stato maggiore asburgico, Conrad von Hötzendorf, richiese per due volte un attacco a sorpresa ed a tradimento contro l’Italia, paese alleato, precisamente dopo il terremoto di Messina del 1908 (la prima volta) e durante la guerra di Libia nel 1911 (la seconda volta). Il Conrad ammette questi suoi progetti persino nelle sue memorie: Feldmarschall Conrad, “Aus meiner Dienstzeit”, Wien-Berlin, 1921. Famigerata è la nota inviata dal von Hötzendorf ad Aehrenthal il 24 settembre 1911, in cui egli proponeva che l’impero asburgico si lanciasse in una guerra a tradimento contro l’Italia approfittando del conflitto italo-turco (che sapevano essere prossimo: fu proclamato il 29 dello stesse mese), od in alternativa alla distruzione della Serbia ovvero alla conquista d’altri territori balcanici.
La causa scatenante delle convinzioni di questo alto ufficiale riguardo all’Italia fu la rivolta di Trieste del 1902, che fu repressa con l’imposizione dello stato d’assedio ed un gran numero di morti dalle autorità militari, sotto la supervisione di von Hötzendorf. Questi affermò ed espresse in decine e decine di rapporti, lettere ecc. la sua personale convinzione che le imponenti manifestazioni dei lavoratori, a cui le unità imperiali risposero sparando ad altezza d’uomo e caricando alla baionetta, avessero avuto l’appoggio degli irredentisti italiani. Tale sua opinione fu talmente radicata, che la repressione sanguinosa dello sciopero triestino rappresentò per questo alto ufficiale imperiale uno spartiacque nelle sue idee politiche e strategiche. Conrad von Hötzendorf divenne da quel momento un accanito sostenitore d’una guerra, offensiva e senza preavviso, contro il regno d’Italia, malgrado questo fosse alleato dell’Austria. Il von Hötzendorf non fu l’unico a trarre queste conclusioni dall’insurrezione di Trieste del 1902, poiché all’interno delle alte gerarchie militari e politiche asburgiche molti altri si convinsero che l’unico modo per l’impero di sopravvivere fosse d’attaccare e distruggere l’Italia e la Serbia. Lo sciopero di Trieste del 1902 divenne in tal modo una della cause scatenanti del primo conflitto, poiché rafforzò le tendenze belliciste dell’impero asburgico ed il tentativo da parte della sua oligarchia dominante di conservare il proprio potere, scosso dalle volontà nazionali dei popoli soggetti, attraverso il ricorso alla forza.
Conrad von Hötzendorf comunque chiese con insistenza un attacco all’Italia per tutto il periodo 1906-1914, trovando in questo il sostegno e l’appoggio di Francesco Ferdinando, l’erede al trono (che ormai costituiva di fatto il vertice dell’impero in considerazione della tarda età di Francesco Giuseppe), degli ambienti di corte e dello stato maggiore, oltre al consenso di larga parte dell’opinione pubblica. La definizione di “italofobo” riferita a von Hötzendorf è dalla biografia su questo personaggio scritta da Lawrence Sondhaus, probabilmente il più grande storico militare vivente americano sul tema Austria/Ungheria. Sondhaus nel suo libro “Franz Conrad Von Hötzendorf: Architect of the Apocalypse” accomuna sia von Hötzendorf sia Francesco Ferdinando d’Asburgo in questa “italofobia”, ed aggiunge che costoro non erano gli unici a pensarla in tal modo (“Francis Ferdinand, an italophobe and no friend of the Triple Alliance. They were not alone in their thinking”).
Il generale Hötzendorf era ossessionato anche dall’idea di una guerra d’aggressione, per quanto ritenuta “preventiva”, anche contro la Serbia, che egli propose nel 1906, nel 1908, nel 1912, nel 1913 ed ancora nel 1914.
Se l’Austria non attaccò, a sorpresa ed a tradimento, l’Italia, approfittando in un caso del terremoto di Messina, nell’altro della guerra italo-turca, ciò fu solo perché la Germania, consultata in proposito, lo impedì.
[Oesterreich-Ungarn und Serbien 1903-1918. Dokumente aus Wiener Archiven, Beograd, Historisches Institut, 1971-1989, “Note des chefs des Generalstabs Conrad”, 24 settembre 1911, d. 2644; Hew Strachan, La Prima Guerra Mondiale, Milano, 2005; Vezio Vascotto, La guerra Italo-Turca, su Storia Militare n° 226, Luglio 2012, pag 26-39].
3) la crisi internazionale provocata dalla decisione unilaterale della Duplice Monarchia d’annettere la Bosnia, che era divenuta un protettorato (non un possesso diretto) nel 1878, con l’obbligo sottoscritto dall’impero asburgico di non annetterla, è stata oggetto di molti studi esaustivi, fra cui si possono ricordare Albertini, Duce, Tommasini fra gli italiani, e Nincic e Schmitt fra gli stranieri.
La crisi incominciò con la decisione asburgica d’annettere quello che era soltanto un protettorato (che per di più aveva opposto resistenza all’invasione imperiale nel 1878), in contrasto con gli impegni internazionali presi dal governo di Vienna nell’anno dell’occupazione della Bosnia-Erzegovina. Si andò vicini ad una guerra con Serbia e Russia, che alla fine arretrarono soltanto per le minacce della Germania, che di fatto impose l’accettazione dell’annessione (la crisi durò dall’ottobre 1908 al marzo 1909). L’annessione del protettorato della Bosnia costituiva quindi una violazione degli impegni presi dall’impero asburgico nel 1878 con la Russia e la Serbia, che prevedevano che questa regione non fosse annessa.
Inoltre costituiva anche una violazione degli accordi presi con l’Italia. Nel 1904 il ministro degli esteri asburgico, Goluchowski, si incontrò con il suo omologo italiano ad Abbazia, nel Quarnero, per trovare un accordo fra i due governi al fine d’evitare tensioni riguardanti i Balcani. Tittoni assicurò Goluchowski che l’Italia non aveva intenzione d’intervenire nei Balcani, ed il ministro degli esteri asburgico fece lo stesso nei suoi confronti, assicurando che non si sarebbe modificato lo status quo esistente, inclusa la condizione della Bosnia, che sarebbe rimasta un protettorato, ma non sarebbe stata annessa. L’unica variazione che, assicurava Goluchowski, avrebbe potuto essere apportata sarebbe stata l’occupazione del sangiaccato di Novi Bazar, ma non l’annessione della Bosnia. [Aufzeichnung über eine Unterredung Seiner Excellens des Herrn Ministers Grafen Goluchowski mit dem königlich italienischen Minister des Aussern Tittoni, in Oesterreich-Ungarn und Serbien 1903-1918. Dokumente aus Wiener Archiven, Beograd, Historisches Institut, 1971-1989]
Comunque, per ciò che riguarda la Triplice Alleanza, l’articolo VII stabiliva che l’Italia aveva diritto a compensi territoriali dall’Austria nel caso che essa si espandesse nei Balcani, il che era avvenuto con l’annessione unilaterale della Bosnia-Erzegovina. Il ministro degli esteri italiani Guicciardini si mise pertanto in contatto con i suoi omologhi di Austria e Germania; il 2 gennaio 1910 s’incontrò con l’ambasciatore austriaco Lützow, ricordandogli che bisognava applicare e precisare i contenuti dell’articolo VII; poi parlò direttamente col nuovo cancelliere della Germania, Bethmann-Hollweg, ricordandogli che era necessario procedere con l’articolo VII, in seguito all’annessione austriaca della Bosnia. Il cancelliere tedesco ammise che ciò era giusto, sostenendo però che prima di prevedere quanti territori l’Austria dovesse cedere bisognasse prima stabilire quanti territori avesse occupato (sic). In seguito, il nuovo ministro degli Esteri italiano, Antonio di San Giuliano, si incontrò con il nuovo ministro degli esteri austriaco, il Merey. Anch’egli, come già aveva fatto il cancelliere tedesco, ammise che secondo l’articolo VII l’Austria avrebbe dovuto, avendo annesso la Bosnia, cedere suoi territori all’Italia come compenso, però chiese che si aspettasse sino al prossimo rinnovo del trattato. Per farla breve, sia la Germania, sia l’Austria dovettero riconoscere che in base all’articolo VII, dopo l’annessione della Bosnia-Erzegovina l’Italia avrebbe avuto diritto a compensi territoriali, ma si rifiutarono di procedere in tale direzione, cercando pretesti e cavilli. [“Documenti diplomatici Italiani”, Roma, Libreria dello stato-Istituto poligrafico dello Stato, 1933; Die Grosse, cit., Aufzeichnung der Reichskanzler von Bethmann-Hollweg, 5 aprile 1910; “Österreich-Ungarns Aussenpolitik von der Bosnischen Krise 1980 bis zum Kriegsaubruch 1914”, Wien, Österreichischer Bundesverlag 1930-, d. 2171, Merey ad Aehrenthal, 13 maggio 1910].
4) L’impero asburgico si rese responsabile negli anni precedenti al conflitto di almeno tre autentici atti di guerra contro l’Italia, compiuti secondo modalità che oggigiorno sarebbero definite di “guerra sporca”, in modo indiretto ed il più segretamente possibile.
A) Durante la guerra italo-turca l’Austria non solo progettò d’attaccare, senza motivo ed a tradimento, l’alleata Italia (il che non avvenne solo per merito della Germania), ma diede appoggio politico e militare nascosto alla Turchia, incitando Istanbul a continuare il conflitto e fornendogli armi e finanziamenti. In Libia era la Germania che, sia direttamente con suoi agenti segreti ed ufficiali, sia indirettamente e per il tramite della Turchia, mandava istruttori militari, armi ed oro, per alimentare la guerriglia contro l’Italia e suscitare l’insurrezione, servendosi in questo di sommergibili.
B) in Albania l'Austria, impossibilitata dalla guerra a dispiegare un'azione aperta, inviava segretamente armi e denari, fomentando le insurrezioni locali.
C) In Abissinia era ancora l'Austria che esercitava un'opera d'accanita sobillazione ai nostri danni presso il negus ligg Jasù (con cui si era in piena pace), incitandolo ad invadere Eritrea e fornendolo d'artiglierie.
Questi furono soltanto i fatti più gravi, ma ne furono molti altri perpetrati dagli austro-tedeschi nel periodo di neutralità che erano comunque contrari al diritto internazionale e lesivi della sovranità nazionale italiana.
Questi erano atti di guerra, che ponevano l’Austria e la Germania in stato di guerra di fatto, ma non dichiarata, con l’Italia, quando essa era ancora neutrale ed erano in corso trattative diplomatiche. Anche se formalmente è stata l’Italia a dichiarare guerra all’Austria ed alla Germania, di fatto sono stati questi due imperi ad iniziarla, aggredendo proditoriamente lo stato italiano.
Si dovrebbe aggiungere ancora che il comportamento austriaco fu tutt’altro che corretto anche sotto altri aspetti nei confronti di un paese alleato come l’Italia. Ad esempio, la marina imperiale aveva fatto spargere mine in Adriatico senza prendere le debite assicurazioni contro il loro spostamento e diffusione, con il risultato che esse talora finirono in acque territoriali italiane, provocando l’affondamento di navi italiane e la morte degli equipaggi. L’Austria rimase inerte anche dopo le proteste ufficiali del governo italiano, continuando con quella che si configurava quale una violazione delle norme del diritto internazionale marittimo. Frattanto venivano segnalate reti spionistiche dell’Austria e della Germania che operavano in Italia settentrionale ed a Roma.
5) A tutto questo s’aggiunga il regime di guerra di fatto attuato dall’impero asburgico sin dal lontano 1866, non contro lo stato italiano ma contro la nazione italiana, a causa delle gravissime misure persecutorie contro gli italiani sudditi dell’imperatore che vivevano in Dalmazia, Venezia Giulia, Trentino, con la finalità (da parte dell’impero) di cancellarne l’esistenza culturale e l’identità nazionale.
La pulizia etnica imperiale fu senz’altro fra le cause dell’ingresso in guerra dell’Italia. Essa è abitualmente trascurata dalla storiografia quando si elencano le ragioni del conflitto. Eppure all’epoca esisteva consapevolezza sia nell’opinione pubblica italiana, sia nella classe dirigente, di ciò che stava succedendo nel Trentino, nella Venezia Giulia, in Dalmazia, il che pesò fortemente nella decisione finale d’entrare in guerra.
Una testimonianza ufficiale ed al più alto livello è la stessa dichiarazione di guerra dell’Italia alla Duplice monarchia, che enumera le motivazioni della decisione, fra cui anche la snazionalizzazione patita dagli italiani ad opera dell’impero asburgico:
«Non sarà fuori di luogo osservare che, cessata l'alleanza, è cessata la ragione dell'acquiescenza, determinata per tanti anni nel popolo italiano del desiderio sincero della pace, mentre rivivono le ragioni della doglianza per tanto tempo volontariamente repressa per il trattamento al quale le popolazioni italiane in Austria furono assoggettate. Patti formali a tutela della nostra lingua, della tradizione e della civiltà italiana nelle regioni abitate dai nostri connazionali, sudditi della Monarchia, non esistevano nel Trattato. Ma quando all'Alleanza si volesse dare un contenuto di pace e d'armonia sincera, appariva incontestabile l'obbligo morale dell'alleato di tener in debito conto anzi di rispettare con ogni scrupolo, il nostro interesse costituito dall'equilibrio etnico nell'Adriatico. Invece la costante politica del Governo austro-ungarico mirò per lunghi anni alla distruzione della nazionalità e della civiltà italiana lungo le coste dell'Adriatico. Basterà qualche sommaria citazione di fatti e di tendenze, ad ognuno già troppo noti sostituzione progressiva dei funzionari di razza italiana con funzionari d'altra nazionalità; immigrazione di centinaia di famiglie di nazionalità diverse; assunzione a Trieste di Cooperative di braccianti estranei; decreti Hohenlohe diretti ad escludere dal Comune di Trieste e dalle industrie del Comune, impiegati regnicoli; snazionalizzazione dei principali servizi del Comune di Trieste e diminuzione delle attribuzioni municipali; ostacoli d'ogni sorta all'istituzione di nuove scuole italiane; regolamento elettorale con tendenza antitaliana; snazionalizzazione dell'amministrazione giudiziaria; la questione della Università, che formò pure oggetto di trattative diplomatiche; snazionalizzazione delle compagnie di navigazione; azione di Polizia o processi politici tendenti a favorire le altre nazionalità a danno di quella italiana; espulsioni metodiche ingiustificate e sempre più numerose di regnicoli. La costante politica del Governo Imperiale e Reale riguardo alle popolazioni italiane soggette, non fu unicamente dovuta a ragioni interne o attinenti al gioco delle varie nazionalità contrastanti nella Monarchia; essa invece apparve inspirata in gran parte da un intimo sentimento d'ostilità e d'avversione riguardo all'Italia, dominante in alcuni circoli più vicini al Governo austro-ungarico ed avente una determinante influenza sulle decisioni di questo. »
È banale osservare che così scrivendo il governo ed il parlamento indicavano ufficialmente fra le cause del conflitto proprio la snazionalizzazione subita dagli italiani, che in verità fu molto più grave di quanto non appaia dalla breve descrizione presentata nella dichiarazione di guerra.
Ma esistono molti altri dati che suggeriscono che questa pulizia etnica abbia pesato fortemente nella decisione finale dello stato italiano, ad iniziare dalla grande diffusione nell’opinione pubblica di numerose inchieste giornalistiche sulle condizioni in cui vivevano gli italiani nell’Austria-Ungheria, scritte fra il settembre del 1914 e l’estate del 1914 ad opera di Luigi Barzini (il principale inviato de “Il corriere della sera”) e Virginio Gayda, il corrispondente de “La Stampa” da Vienna. Questi lunghe e dettagliate relazioni si aggiunsero ai numerosi articoli che molti giornali avevano pubblicato già negli anni precedenti riguardo alla pulizia etnica, alzando di molto l’animosità di larga parte dell’opinione pubblica contro l’Austria.
Una panoramica complessiva dei rapporti diplomatici fra Italia ed impero asburgico immediatamente prima della guerra si ritrova nel saggio di Luciano Monzali L. MONZALI, Italiani di Dalmazia: dal Risorgimento alla grande guerra, Firenze 2011, pp. 185-297. Non potendosi certo riportare un intero e denso capitolo ci si può limitare a citare una frase significativa di questo storico, che nel suo libro ammette la realtà della snazionalizzazione perseguita dall’impero: “Dall’estate 1913 la questione nazionale italiana in Austria ritornò al centro dei rapporti italo-austriaci, senza più uscirne”. (Ibidem, p. 271).
Queste sono state, tutte, violazioni del trattato della Triplice da parte dell’Austria, avvenute ben prima del 1915 e tali da configurare un autentico tradimento.
Non può esistere dubbio alcuno pertanto su cui abbia tradito il patto della Triplice Alleanza: l’impero asburgico. L’Austria temeva ed avversava l’Italia e si comportò con autentica perfidia (etimologicamente “mancanza di fedeltà”) in diversi modi, tradendo ripetutamente le clausole d’alleanza e perpetrando inoltre atti di guerra ed aggressione contro lo stato italiano e le sue forze armate, per molti anni e ben prima della dichiarazione di guerra italiana.
L’intervento in guerra italiano nel 1915 fu praticamente reso inevitabile dalle continue aggressioni imperiali e dalla minaccia costante portata da Vienna all’esistenza dello stato e dello stesso popolo italiani. (Marco Vigna)
 
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1 MORTO OGNI 4 PRIGIONIERI NEI LAGER DI FRANCESCO GIUSEPPE.

LA SORTE DEI MILITARI ITALIANI IN MANO ALL’AUSTRIA IMPERIALE

I prigionieri italiani nella Grande Guerra furono molti: circa 260.000 catturati dall’inizio della guerra sino a Caporetto (per la maggior parte feriti), 280.000 presi nella ritirata dopo Caporetto, altri 50.000 nell’ultimo anno di guerra. Il totale ammonta quindi a circa 600.000, fra cui 19500 ufficiali. I morti in prigionia furono circa 100.000, quindi 1 prigioniero italiano su 6 perì nei campi di prigionia imperiali. La cifra effettiva di coloro che perirono in conseguenza delle condizioni della cattività è però più alta, perché altri 50.000 morirono poco dopo la liberazione dai lager imperiali perché ormai troppo debilitati e malati. Di fatto, su 600.000 prigionieri italiani finiti nei campi di concentramento imperiali, 150.000 morirono: 1 morto ogni 4 prigionieri.
Le condizioni dei prigionieri furono piuttosto differenti, perché circa 1/3 fu rinchiuso in campi della Germania (dove furono trattati molto meglio che nell’impero d’Austria) e vi furono differenze anche nei lager austriaci. Lo status dei militari italiani catturati fu comunque mediamente pessimo.
La razione quotidiana era inferiore alle 1000 calorie, quindi insufficiente per un uomo adulto. Il pasto che l’impero concedeva ai prigionieri fu solitamente così costituita, grossomodo: uno scadente caffè d'orzo come colazione, un minestrone a base di rape come pranzo, una patata, con una aringa ed una fettina di pane per cena. La carne era un lusso raro, che si limitava ad un pezzettino minuscolo due o tre volte la settimana. Ridotti a scheletri, i prigionieri cercavano di lenire la fame con espedienti inutili o dannosi, talora letali: ingollando grandi quantità di acqua, inghiottendo erba, carta, talora persino terra, piccoli pezzi di legno od addirittura sassolini.
La carenza alimentare era aggravata dal lavoro forzato, a cui i prigionieri erano obbligati per 12-14 ore al giorno, con lavori pesanti nell’agricoltura, nell’industria, nelle miniere. La combinazione fra mancanza di calorie e consumo di stesse in lunghi e gravosi impegni condusse inevitabilmente ad una alta mortalità.
La salute dei prigionieri fu menomata anche dal vestiario e dall’alloggiamento. Le autorità imperiali non si curarono di rimpiazzare le uniformi con cui erano stati catturati o di fornire ai prigionieri abbigliamento invernale qualora i prigionieri non lo avessero. Inoltre gli italiani erano rinchiusi di norma in grossi stanzoni privi di riscaldamento ed infestati da pidocchi.
Da ultimo, ma non per ultimo, i carcerieri imperiali fecero ampio ricorso a punizioni corporali durissime, secondo norme e consuetudini radicate nell’impero d’Austria e non solo verso i prigionieri. Il ricorso alla bastonatura, che per inciso era peggio della fustigazione, fu frequente contro i patrioti italiani nel Risorgimento ed ancora dopo il 1866 contro gli irredentisti in senso stretto. Contro i prigionieri italiani si utilizzarono bastonature e la tortura del palo. Essa era così condotta. L’italiano era legato con corde ad un palo alle caviglie ed ai polsi, tendendo le braccia sollevate verso l’alto ed all’indietro, i piedi invece sollevati dal suolo ed incrociati, affinché il corpo dovesse pendere in avanti descrivendo una sorta di semicerchio. Il punito era tenuto in questa faticosissima e dolorosa posizione per molte ore, due, tre, quattro. Se sveniva, ciò che accadeva sovente, il condannato era fatto rinvenire con un secchio d’acqua, oppure momentaneamente slegato e poi rilegato.
Il risultato di questa combinazione di dieta da morte per fame, lavori forzati, freddo e pidocchi, pestaggi e torture, fu un’ecatombe di decessi per polmonite, dissenteria, tubercolosi ed altro. Le testimonianze dei superstiti descrivono i campi di concentramento asburgici come popolati da scheletri ricoperti di stracci, che giacevano nel luridume, così affamati da buttarsi nei canali di scolo per tentare di recuperare scarti di cibo gettati nella spazzatura. I lager del kaiser furono soprannominati nel 1918 “le città dei morenti”.
Può essere utile un confronto fra i lager di Francesco Giuseppe e Carlo I da una parte, i lager del loro connazionale austriaco Adolf Hitler dall’altra. Il tasso di mortalità fra i prigionieri italiani nella Grande Guerra finiti nei campi di concentramento austriaci fu più che doppia di quella dei militari italiani catturati dai tedeschi dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943. Era quindi di gran lunga più pericoloso e peggiore per gli italiani finire in un campo di prigionia di Cecco Beppe e del beato Carlo che in uno di Baffetto.
G. Procacci, "Soldati e prigionieri italiani", Torino 2000
Gian Paolo Bertelli, “Mauthausen 1918. una tragedia dimenticata”, Ferrara 2009
S. Picciaredda, "Diplomazia umanitaria. La Croce Rossa nella Seconda guerra mondiale", Bologna, 2003.
Karagiannis S., Convenzioni internazionali e diritto bellico, in La prima guerra mondiale, a c. di Audoin-Rouzeau S. e Becker J.J., Torino 2007
La Relazione della R. Commissione d’inchiesta sulle violazioni del diritto delle genti commesse dal nemico, Roma 1920-1921

---Marco Vigna
 
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view post Posted on 20/1/2021, 01:00

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