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Crimini americani in Sicilia durante la seconda guerra mondiale.

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view post Posted on 6/3/2012, 16:06
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Soldati italiani e tedeschi accoppati a sangue freddo dopo essersi arresi...
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Così morì il campione Long
di Gianluca Di Feo


Un atleta tedesco. Che alle Olimpiadi divenne amico del nero Jesse Owens e per questo, nel '43, fu spedito da Hitler in prima linea. Fu ucciso in Sicilia. Durante i crimini di guerra commessi dagli americani. Ora un libro cerca di far luce sulla sua fine

Su come sia morto manca la certezza, perché pochissimi degli uomini che combatterono al suo fianco sono sopravvissuti: gli altri furono uccisi in combattimento o massacrati senza pietà dopo la resa dai soldati americani il 14 luglio 1943. E anche il suo nome è incluso in quell'elenco di italiani e tedeschi dati per dispersi ma in gran parte ammazzati a freddo dai fanti statunitensi, che avevano eseguito alla lettera l'appello del generale Patton a "non fare prigionieri".

Così per la prima volta comincia a chiarirsi il mistero sulla fine di Ludwig "Luz" Long, l'atleta tedesco diventato il simbolo universale della sportività.
Nelle Olimpiadi di Berlino del 1936 Long, biondo e ariano, sfidò il nero Jesse Owens nel salto in lungo. Il suo rivale aveva già fallito due salti: un altro errore e l'oro sarebbe stato certo. Invece il tedesco andò dall'avversario e gli suggerì di anticipare lo stacco: consiglio accolto dall'americano con una prestazione da primato. Davanti allo sguardo infuriato di Adolf Hiltler, il saltatore biondo fu il primo ad abbracciare il vincitore e congratularsi con lui: immagini che ancora oggi in tutto il mondo incarnano lo spirito di De Coubertin. Luz e Jesse diventarono amici ma il tedesco pagò a caro prezzo il suo fair play: allo scoppio della guerra fu mandato al fronte senza riguardi e morì in Sicilia.

Le notizie sulla sua fine erano sempre state vaghe, nonostante gli onori tributati dal Comitato Olimpico Internazionale anche in occasione dei giochi del 2000. Adesso gli studi di Andrea Augello, senatore del Pdl ed ex sottosegretario di Palazzo Chigi, aprono un primo spiraglio sulla sorte dell'atleta. Ormai da cinque anni il parlamentare si dedica alla ricostruzione storica dei massacri di prigionieri italiani nel luglio 1943: soldati che, contrariamente ai luoghi comuni sullo sbarco in Sicilia, difesero strenuamente il fronte nella zona di Gela mettendo in crisi gli americani. Adesso con la nuova edizione di "Uccidete gli italiani", che Mursia manderà nelle librerie la prossima settimana, l'opera è praticamente completa. Con risultati sorprendenti. Incrociando resoconti e documenti inediti, il senatore ha individuato i nomi di 68 italiani e quattro tedeschi ammazzati dopo la resa. Di alcuni ha recuperato anche le foto: ventenni che scherzano duellando con le baionette. Quei ragazzi fino all'ultimo hanno difeso il piccolo aeroporto di San Pietro, poco lontano da Caltagirone, facendo perdere la testa ai reparti d'assalto di Patton. Erano avieri palermitani e romani, mitraglieri bresciani e toscani: tra loro anche Sergio Stauble, un asso dei biplani da caccia. Dopo avere alzato le mani, furono lasciati in mutande, fatti marciare senza scarpe sotto il sole, poi messi in fila e abbattuti a raffiche di mitra.

Il caporale Long con la sua compagnia dell'antiaerea germanica ha combattuto al fianco degli italiani, bloccando l'avanzata statunitense. E dopo la resa almeno quattro dei tedeschi sono stati fucilati assieme agli italiani. Secondo un testimone Long sarebbe stato ferito prima, durante la battaglia: il commilitone avrebbe tentato di caricarselo sulle spallle e poi lo avrebbe abbandonato ancora vivo. Come è morto? Il corpo è stato sepolto assieme alle vittime dei massacri. E Giuseppe Giannola, l'unico superstite degli eccidi ancora in vita, fu colpito tre volte dopo essere stato preso prigioniero: nonostante fosse già ferito, gli spararono al petto nel tentativo di finirlo. Giannola denunciò i crimini degli americani nel 1947: per oltre mezzo secolo nessuno gli ha creduto. Ora spera che almeno sia reso onore alla memoria dei suoi compagni, con un cippo che ricordi i "fantasmi di San Pietro" rimasti senza nome dal giorno della strage.

http://espresso.repubblica.it/dettaglio/co...ne-long/2175757

Edited by Peppero - 6/3/2012, 19:31
 
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MicheleNovaro
view post Posted on 6/3/2012, 17:16




Anche nella Battaglia di Montecassino gli americani distrussero un'intera città, ed in ciociaria i soldati Nordafricani (sotto l'esercito francese) violentarono molte donne.
Alla fine siamo sempre noi che dobbiamo pagare i danni di guerra....
 
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view post Posted on 6/3/2012, 19:24

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i nostri gloriosi liberatori, che ci hanno portato la democrazia e la civiltà :(
 
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view post Posted on 6/3/2012, 19:36
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Sapevo di questo fatto, e anche dei russi tra le fila tedesche che chiesero agli Alleati di non essere consegnati a Stalin, temendone la vendetta. Fecero male ad arrendersi, credendo alle promesse di pace e libertà, perché furono rispediti in URSS. La fine possiamo immaginarla...
 
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Legionarivs
view post Posted on 6/3/2012, 20:47




Trascrivo alcuni interessanti articoli del Corriere della Sera riguardo ai crimini compiuti dagli alleati in Sicilia; naturalmente sono fatti bellamente ignorati dalla storiografie ufficiali.
Le trascrizioni le ho prese dal forum de ilCovo.

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Sicilia 1943, l’ordine di Patton ''Uccidete i prigionieri italiani''
I massacri dimenticati compiuti dai fanti americani tra il 12 e il 14 luglio. "Decine di morti"

"Il capitano Compton radunò gli italiani che si erano arresi. Saranno stati più di quaranta. Poi domandò: "Chi vuole partecipare all’esecuzione?". Raccolse due dozzine di uomini e fecero fuoco tutti insieme sugli italiani". "Il sergente West portò la colonna di prigionieri italiani fuori dalla strada. Chiese un mitra e disse ai suoi: "E’ meglio che non guardiate, così la responsabilità sarà soltanto mia". Poi li ammazzò tutti". E’ una piccola Cefalonia: le vittime sono soldati italiani che avevano combattuto con determinazione. I carnefici non sono né delle SS né della Wehrmacht: sono fanti americani. Quella avvenuta in Sicilia tra il 12 e il 14 luglio 1943 è la pagina più nera della storia militare statunitense. Una pagina sulla quale gli storici negli Stati Uniti discutono da un lustro, mentre nel nostro Paese la vicenda è pressoché sconosciuta. Nelle università del Nord America ci sono corsi dedicati a questi eccidi, come quello tenuto a Montreal sul tema "Dal massacro di Biscari a Guantanamo". E negli Usa in queste settimane gli esperti di diritto militare valutano le responsabilità dei carcerieri di Abu Ghraib anche sulla base delle corti marziali che giudicarono i "fucilatori di italiani". Perché - come risulta dagli atti di quei processi - i soldati americani si difesero sostenendo di avere soltanto eseguito gli ordini di George Patton. "Ci era stato detto - dichiararono - che il generale non voleva prigionieri".

I FATTI -

Nessuno conosce il numero esatto di uomini dell’Asse uccisi dopo la resa. Almeno cinque gli episodi principali, con circa duecento morti. Di due, quelli avvenuti nell’aeroporto di Biscari, nel Ragusano, si conosce ogni dettaglio. Nel massimo segreto, nell’autunno ’43 la corte marziale Usa celebrò due processi: il sergente Horace T. West ammazzò 37 italiani, il plotone d’esecuzione del capitano John C. Compton almeno 36. Gli atti del tribunale recitano: "Tutti i prigionieri erano disarmati e collaborativi". Altri due eccidi sono stati descritti da un testimone oculare, il giornalista britannico Alexander Clifford, in colloqui e lettere ora divulgate. Avvennero nell’aeroporto di Comiso, quello diventato famoso mezzo secolo dopo per gli euromissili della Nato. All’epoca era una base della Luftwaffe, contesa in una sanguinosa battaglia. Clifford disse che sessanta italiani, catturati in prima linea, vennero fatti scendere da un camion e massacrati con una mitragliatrice. Dopo pochi minuti, la stessa scena sarebbe stata ripetuta con un gruppo di tedeschi: sarebbero stati crivellati in cinquanta. Quando un colonnello, chiamato di corsa dal reporter, fermò il massacro, solo tre respiravano ancora. Clifford denunciò tutto a Patton, che gli promise di punire i colpevoli. Ma non ci fu mai un processo e il cronista si è rifiutato fino alla morte di deporre contro il generale. Infine l’ultima strage nella Saponeria Narbone-Garilli a Canicattì contro la popolazione che la stava saccheggiando. Secondo i resoconti stilati in quei giorni confusi del ’43, la polizia militare Usa dopo avere intimato l’alt ed esploso dei colpi in aria, sparò una raffica sulla folla uccidendo sei persone. Ma i verbali scoperti nel 2002 dal professore Joseph Salemi della New York University - il cui padre fu testimone oculare dell’eccidio - riportano il racconto di alcuni dei soldati americani presenti: "Appena arrivati, il colonnello urlò di sparare sulla folla che era entrata nello stabilimento. Noi rimanemmo fermi, era un ordine agghiacciante. Allora lui impugnò la pistola ed esplose 21 colpi, cambiando caricatore tre volte. Morirono molti civili: vidi un bambino con lo stomaco sfondato dalle pallottole".

L’ORDINE -

Ma gli atti dei processi per "i fatti di Biscari" accreditano la possibilità che le vittime siano state molte di più. Tutti i crimini sono stati opera della 45ma divisione di Patton, i "Thunderbirds": reparti provenienti dalla Guardia nazionale di Oklahoma, New Mexico e Arizona. Vengono descritti come cow boy, con elementi d’origine pellerossa. Ma presero parte con coraggio ad alcune delle battaglie più dure del conflitto. Quello sulle coste siciliane fu il loro battesimo del fuoco: avevano l’ordine di conquistare entro 24 ore i tre aeroporti più vicini alla costa, strategici per trasferire dal Nord Africa gli stormi alleati. Invece la disperata resistenza di due divisioni italiane e di poche unità tedesche li fermò per quattro giorni. Molti G.I. persero il controllo dei nervi. Ed erano tutti convinti che il generale Patton avesse ordinato di non fare prigionieri. Decine di soldati, graduati ed ufficiali testimoniarono al processo: "Ci era stato detto che Patton non voleva prenderli vivi. Sulle navi che ci trasportavano in Sicilia, dagli altoparlanti ci è stato letto il discorso del generale. "Se si arrendono quando tu sei a due-trecento metri da loro, non badare alle mani alzate. Mira tra la terza e la quarta costola, poi spara. Si fottano, nessun prigioniero! E’ finito il momento di giocare, è ora di uccidere! Io voglio una divisione di killer, perché i killer sono immortali!".

L’ORRORE -

Il primo a scoprire e denunciare gli eccidi fu il cappellano della divisione, il colonnello William King. Alcuni soldati americani, sconvolti, lo chiamarono e gli indicarono la catasta dei corpi crivellati dal sergente West: "E’ una follia - gli dissero -, stanno ammazzando tutti i prigionieri. Siamo venuti in guerra per combattere queste brutalità non per fare queste porcherie. Ci vergogniamo di quello che sta accadendo". King corre a cercare il comando del reggimento. Ma lungo la strada per l’aeroporto vede un recinto di pietra, probabilmente un ovile, pieno di italiani catturati. Recita il verbale del cappellano: "Quando mi sono avvicinato, il caporale di guardia mi ha salutato: "Padre, sei venuto per seppellirli?". "Cosa stai dicendo?", replicai io. Il caporale rispose: "Loro sono lì, io sono qui con il mio mitra Thompson, tu sei lì. E ci hanno detto di non fare prigionieri"". A quel punto King sale su un masso, chiama tutti gli americani presenti e improvvisa una predica per convincerli a risparmiare quegli uomini: "Non potete ucciderli, i prigionieri sono una fonte preziosa di notizie sul nemico. E poi i loro camerati potrebbero vendicarsi sui nostri che hanno preso. Non fatelo!". Altrettanto drammatica la testimonianza del capitano Robert Dean: "Venni fermato da due barellieri disarmati. Mi dissero: "Abbiamo due italiani feriti, mandate qualcuno ad ammazzarli". Io gli urlai di curare quei soldati, altrimenti gliela avrei fatta pagare".

LA CONDANNA -

Fu proprio la volontà del cappellano King a far nascere i due processi sui massacri di Biscari. King raccontò tutto all’ispettore dell’armata - figura simile ai nostri pubblici ministeri -, che fece rapporto a Omar Bradley. La corte marziale contro il sergente West si aprì a settembre. L’accusa: "Omicidio volontario premeditato, per avere ucciso con il suo mitra 37 prigionieri, deliberatamente e in piena coscienza, con un comportamento disdicevole". I fanti italiani - poco meno di 50 - erano stati catturati dopo un lungo combattimento in una caverna intorno all’aeroporto di Biscari. Il comandante li consegnò al sergente con un ordine ritenuto "vago" dai giudici: allontanarli dalla pista dove si sparava ancora. Nove testimoni hanno ricostruito l’eccidio. West mette gli italiani in colonna, dopo alcuni chilometri di marcia ne separa cinque o sei dal resto del gruppo. Poi si fa dare un mitra e conduce gli altri fuori dalla strada. Lì li ammazza, inseguendo quelli che tentano di scappare mentre cambia caricatore: uno dei corpi è stato trovato a 50 metri. Davanti alla corte, il sergente si difese invocando lo stress: "Sono stato quattro giorni in prima linea, senza mai dormire". Dichiarò di avere assistito all’uccisione di due americani catturati dai tedeschi, cosa che lo "aveva reso furioso in modo incontrollato". Il suo avvocato parlò di "infermità mentale temporanea". Infine, West disse ai giudici: "Avevamo l’ordine di prendere prigionieri solo in casi estremi". Ma la sua difesa non convinse la corte, che lo condannò all’ergastolo. La pena però non venne mai eseguita. Washington infatti era terrorizzata dalle possibili ripercussioni di quei massacri. Temeva il danno d’immagine sugli italiani - con cui era stato appena concluso l’armistizio - e il rischio di ritorsioni sugli alleati reclusi in Germania. Si decise di non mandare West in una prigione negli Usa ma di tenerlo agli arresti in una base del Nord Africa. Poi la sorella cominciò a scrivere al ministero e a sollecitare l’intervento del parlamentare della sua contea. Il vertice dell’esercito teme che la vicenda possa finire sui giornali. Il 1° febbraio 1944 il capo delle pubbliche relazioni del ministero della Guerra sollecita al comando alleato di Caserta un "atto di clemenza" per West: "Non possiamo - è il testo della lettera pubblicata da Stanley Hirshson nel 2002 - permettere che questa storia venga pubblicizzata: fornirebbe aiuto e sostegno al nemico. Non verrebbe capita dai cittadini che sono così lontani dalla violenza degli scontri". Così dopo solo sei mesi, West viene rilasciato e mandato al fronte. Secondo alcune fonti, morì a fine agosto in Bretagna. Secondo altre, ha concluso la guerra indenne.

L’ASSOLUZIONE -

Invece il 23 ottobre ’43 il capitano John C. Compton non cercò scuse: davanti alla corte marziale disse solo di avere obbedito agli ordini. Nel processo fu ricostruita la battaglia per la base di Biscari, combattuta per tutta la notte. C’era una postazione nascosta su una collina che continuava a bersagliare la pista. E’ una mischia feroce, con tiri di mitragliatrici e mortai, senza una linea del fronte. L’unità di Compton aveva avuto dodici caduti in poche ore. A un certo punto, un soldato statunitense vede un italiano in divisa e un altro in abiti "borghesi" che escono da una ridotta: sventolano una bandiera bianca. L’americano si avvicina e dalla trincea alzano le mani circa quaranta uomini. Cinque hanno giacche e maglie civili sopra i pantaloni e gli stivali militari. Il soldato li consegna al sergente ma arriva il capitano. Compton non perde tempo: dice di ucciderli. Molti dei suoi si offrono volontari: sparano in 24, esplodendo centinaia di pallottole sul mucchio degli italiani. Il numero esatto delle vittime resta incerto ma l’inchiesta si conclude con l’incriminazione del solo ufficiale per 36 omicidi, scagionando i suoi subordinati. E Compton in aula dichiara che l’ordine era quello, che doveva uccidere i nemici che continuavano a resistere a distanza ravvicinata. Inoltre precisa che quegli italiani erano "sniper", termine traducibile come "cecchini" o "franchi tiratori", e quindi andavano fucilati: una linea difensiva che sarebbe stata suggerita dallo stesso Patton. "Li ho fatti uccidere perché questo era l’ordine di Patton - concluse il capitano -. Giusto o sbagliato, l’ordine di un generale a tre stelle, con un’esperienza di combattimento, mi basta. E io l’ho eseguito alla lettera". Tutti i testimoni - tra cui diversi colonnelli - confermarono le frasi di Patton, quel terribile "se si arrendono solo quando gli sei addosso, ammazzali". Alcuni riferirono anche che Patton aveva detto: "Più ne prendiamo, più cibo ci serve. Meglio farne a meno". Compton fu assolto. Il responsabile dell’inchiesta William R. Cook fu tentato di presentare appello: "Quell’assoluzione era così lontana dal senso americano della giustizia - scrisse - che un ordine del genere doveva apparire illegale in modo lampante". Ma nel frattempo Cook era caduto al fronte. Ironia della sorte, si crede che sia stato colpito da un cecchino mentre cercava di avvicinarsi a dei tedeschi con la bandiera bianca. La sua assoluzione è però diventato un caso giuridico, che ha cominciato a circolare tra il personale della giustizia militare statunitense dopo la fine della guerra. Un precedente "riservato" anche per evitare che influisca sui processi ai criminali di guerra nazisti. Poi nel ’73 una traccia nei diari di Patton pubblicati da Martin Blumenson e nell’83 la prima descrizione completa nell’autobiografia del generale Omar Bradley. Oggi alcuni storici americani - assolutamente non sospettabili di revisionismo - ritengono che sulla base della sentenza Compton andavano assolte le SS fucilate per gli omicidi di prigionieri americani. E mentre negli Stati Uniti da 25 anni si pubblicano studi sul "massacro di Biscari" e le sue ripercussioni - il primo nel 1988 fu di James J. Weingartner, l’ultimo nel 2002 è stato di Hirshson - nel nostro Paese la vicenda è stata sostanzialmente ignorata. Vent’anni fa nel volume dello statunitense Carlo d’Este sullo sbarco in Sicilia, tradotto da Mondadori, la questione era relegata in un capoverso. Poi, ultimamente due introvabili scritti di storici siciliani e una pagina nel documentato volume di Alfio Caruso. Mai però un’iniziativa per ricordare quei soldati, rimasti senza nome. Mentre persino Biscari non esiste più: oggi il paese si chiama Acate.

www.disinformazione.it/generalepatton.htm
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SECONDA PARTE

"I prigionieri italiani uccisi? Raccontate che erano cecchini" 1943: la ricostruzione delle stragi compiute in Sicilia dai soldati americani, il diario di Patton, i processi.

"Adesso alcuni ragazzi con i capelli ben pettinati stanno tentando di dire che ho ammazzato troppi prigionieri in Sicilia. Ma quelle stesse persone gioiscono per stragi di giapponesi ben più grandi. Più nemici ho eliminato, meno uomini ho perso: loro però non la pensano così". Sono le frasi con cui George Patton commenta sul suo diario l’apertura di un’inchiesta nei suoi confronti per le stragi di prigionieri italiani in Sicilia. Settantatré soldati, catturati durante la battaglia per l’aeroporto di San Pietro a Biscari (oggi Acate) e assassinati a sangue freddo. Dopo la denuncia di un cappellano, la corte marziale aveva condannato un sergente colpevole della morte di 37 italiani. E assolto un capitano che aveva dimostrato come l’ordine di non risparmiare chi alzava le mani fosse arrivato proprio dal comandante in capo dell’armata. In realtà dietro queste istruttorie si nascose una lotta di potere al vertice dei comandi alleati, con il generale a due stelle Omar Bradley impegnato a scavalcare il suo superiore. E si celò una ancora più complessa manovra per impedire la pubblicazione delle notizie sui massacri, rimaste infatti sostanzialmente inedite fino agli anni Ottanta. Tra il 12 e il 14 luglio ’43, nel corso dei feroci combattimenti per la conquista degli aeroporti intorno a Gela, gli americani avrebbero compiuto almeno cinque eccidi. Sui due nella zona di Comiso - circa 110 militari dell’Asse crivellati con una mitragliatrice - non venne aperta nessuna inchiesta. E questo nonostante Patton avesse promesso al giornalista-testimone Alexander Clifford di punire i responsabili. Ma su questo silenzio probabilmente ha pesato anche la presenza di Bradley nella zona delle esecuzioni. Invece delle raffiche esplose a freddo contro la folla che cercava di saccheggiare una fabbrica a Canicattì nessun generale venne informato. Diversa la storia di Biscari, perché Bradley fece di tutto per aprire l’inchiesta. "E’ venuto da me Bradley, un uomo fin troppo corretto , molto nervoso - ricorda Patton nel suo diario - per dirmi che un capitano ha preso sul serio il mio ordine di uccidere chi continuava a sparare anche quando eravamo a meno di 200 metri. Il capitano ha ammazzato quasi 50 prigionieri, a sangue freddo e raggruppandoli, cosa che costituisce un errore ancora più grande. Gli ho risposto che probabilmente era una notizia esagerata. Ma in ogni caso di dire al capitano di dichiarare che quegli uomini erano cecchini o avevano tentato di fuggire, perché c’è il rischio che finisca tutto sui giornali e i civili diventino furiosi. Comunque sia andata, sono morti e non c’è più nulla da fare". Il 9 agosto Bradley tornò alla carica: chiese a Patton di arrestare il sergente e il capitano sotto accusa. Ma il generale dedica poche righe nel suo diario a questo episodio, infervorandosi di più per la "scappatella" di tre italo-americani: "Bradley ha detto che sarebbe necessario far processare i due di Biscari. Poi mi ha raccontato che hanno trovato tre soldati americani di origine siciliana che avevano abbandonato i ranghi per andare dai loro parenti. Bastardi! Diserzione davanti al nemico, vorrei ammazzarli...". Pochi giorni dopo, di fronte all’inerzia del superiore, Bradley dispone personalmente la cattura dei fucilatori di Biscari. Proprio nelle stesse giornate, Patton viene sostanzialmente silurato. Nei film e nelle biografie più datate, la disgrazia del "generale d’acciaio" viene collegata allo scandalo dello "slapping": gli schiaffi e gli insulti antisemiti contro due soldati americani, ricoverati per "choc da bombardamento". Ma adesso alcuni storici cominciano ad avanzare l’ipotesi che la vicenda degli schiaffi sia stata usata anche per coprire il caso dei massacri di prigionieri. Una notizia, quest’ultima, che poteva avere effetti devastanti sull’opinione pubblica mondiale. Pur nell’esigenza di segretezza, la giustizia militare statunitense tentò di andare fino in fondo. Più volte nel giugno ’43 il magistrato responsabile per l’armata di Patton aveva chiesto al comandante di correggere il contenuto dei discorsi in cui invitava "a uccidere i nemici che alzano le mani a meno di 200 metri". Poi nel febbraio ’44 aveva trasmesso a Washington gli atti dei due processi per i massacri di Biscari, con le testimonianze sui discorsi del generale. L’interrogatorio del colonnello che guidava il reggimento delle stragi confermò le parole di Patton: "Avevo preso degli appunti. Ci disse: "Se continuano a spararvi addosso quando siete a 100-200 metri da loro, allora anche se cercano di arrendersi non lasciateli vivere"". Quelle stesse frasi che il colonnello urlò ai soldati dall’altoparlante delle navi mentre arrivavano sulle coste siciliane. E che spinse molti di loro a non prendere prigionieri. Il 4 aprile 1944, in piena preparazione dello sbarco in Normandia, l’ispettore generale del Ministero della Guerra arriva a Londra per interrogare Patton. "Io - replica Patton - volevo solo far capire che in un combattimento ravvicinato non bisogna fidarsi dei segnali di resa ma continuare a sparare finché non c’è la certezza che abbiano alzato le mani. Mio figlio è in un campo di concentramento tedesco: come potrei ordinare di uccidere i prigionieri?". Ma l’ispezione si chiude con un dossier segreto che evidenzia il peso delle frasi di Patton. "In almeno due discorsi ai suoi ufficiali ha detto: "se un figlio di p... vi spara mentre siete a 2-300 metri, allora uccidetelo". Non ha specificato di volere la morte dei prigionieri, ma non ha chiarito neanche il significato delle sue parole, trasmesse poi ai reparti". Il documento però non sollecita iniziative contro il generale. Mancano pochi giorni al D-Day e la disastrosa esperienza di Anzio sta convincendo Eisenhower a rimettere in gioco l’irruento condottiero. E soprattutto si vuole evitare lo scandalo: "Patton era troppo utile per lo sforzo bellico in quel momento - spiega al Corriere James Weingartner, il docente della Southwestern Illinois University autore nell’89 del primo studio completo su Biscari -. Inoltre la sua incriminazione avrebbe reso più difficile la tutela del segreto sulle atrocità". Secondo Carlo d’Este, ex ufficiale e storico americano, invece i crimini di Biscari vanno inquadrati nella situazione di quei giorni in cui spesso "anche italiani e tedeschi uccidevano chi si arrendeva". Cita le lettere del generale alla moglie, in cui ironizza: "Gli italiani che resistono sono grandi combattenti , hanno fatto lo scherzo della bandiera bianca quattro volte". Dal punto di vista formale, l’aiuto più forte a Patton arriva dal generale Everett Hughes, suo capocorso a West Point e stretto collaboratore di Eisenhower, che scrive al capo dell’ispettorato militare di Washington: "Sono convinto che non ha mai ordinato di eliminare i prigionieri. Sono convinto che sia un combattente che guarda alla realtà della guerra e fa quello che pochi nel nostro esercito hanno il coraggio di fare: parla apertamente di uccidere. George crede che il modo migliore di accorciare la guerra sia ammazzare quanti più tedeschi, il più in fretta possibile". Sotto le pallottole a Biscari, però, non caddero dei feroci nazisti ma soldati italiani, colpevoli solo di avere combattuto con decisione. E su questo aspetto le conclusioni del professor Stanley Hirshson - che ha realizzato la biografia più documentata e dissacrante sul "generale d’acciaio" - offrono una chiave di lettura ancora più inquietante. Dalla Sicilia alla Germania Patton avrebbe rovinato la sua carriera a causa dell’odio profondo verso italiani, ebrei e comunisti. Un odio nato nel 1912, quando l’industria tessile della madre fu rovinata da un lungo sciopero organizzato da sindacalisti socialisti ebrei: i lavoratori che incrociarono le braccia erano quasi tutti immigrati provenienti dal nostro Meridione. Il disprezzo emerge spesso nei diari del generale: "Gli italiani avranno paura di noi, i tedeschi no". Oppure: "Abbiamo catturato due generali, hanno detto di essere felici di trovarsi nelle nostre mani perché i siciliani non sono esseri umani ma degli animali". Ma Carlo D’Este, scrittore americano dalle indubbie origini, è tra chi non condivide questa impostazione. Una valutazione basata in particolare sul discorso al cardinale di Palermo: "Gli italiani hanno combattuto con la forza della disperazione. Sono sorpreso dalla loro stupidità e dal loro coraggio: stupidi perché lottano per una causa persa, valorosi perché italiani".

Gianluca Di Feo

Fonte:Corriere della Sera 23/24.06.04
www.magio.info/newnews/Articolo_1.asp?idArticolo=1558
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STORIA: OMBRE DI MORTE NELLO SBARCO DEL '43 IN SICILIA
(ANSA) - PALERMO, 25 (ANSA) - PALERMO, 23 GIU 2004 - GIU -

Luci e ombre dello sbarco degli alleati in Sicilia. Ancora oggi, a distanza di oltre 60 anni, riaffiora nella memoria di chi ha visto e non ha mai dimenticato una delle pagine piu' oscure della storia dello sbarco alleato: i massacri commessi nel 1943 dalle truppe americane agli ordini del generale Patton, ricostruiti in un servizio pubblicato dal Corriere della Sera Giuseppe Ciriacono, maresciallo dei carabinieri in pensione, aveva 13 anni quando si compi', sotto i suoi occhi, una delle stragi piu' efferate: l' eccidio di Biscari. Cinque civili caddero sotto i colpi dei mitra dei soldati americani, a pochi metri dal ragazzo che vide quella scena terribile. Era il 13 luglio. Il giorno successivo, secondo le ricostruzioni di alcuni studiosi, gli alleati uccisero altri otto civili e 84 militari, 81 italiani e tre tedeschi. L' unico testimone oculare della strage oggi ha 74 anni e vive ad Acate, la citta' in provincia di Ragusa che un tempo si chiamava Biscari. Sono passati tanti anni, ma il film di quella strage e' rimasto impresso in modo indelebile nella sua mente. ''Gli americani - racconta il pensionato - arrivarono nel nostro rifugio e ci prelevarono, trasferendoci a 400 metri dalla casa, vicino ad una casetta rurale abbandonata e ci fecero sedere sotto un grande albero di gelso. Dopo poco tempo arrivarono altri militari che circondarono la casa e la tennero sotto il tiro dei mitragliatori''. Giuseppe Ciriacono ancora oggi ricorda con una lucidita' straordinaria le ultime parole del dialogo fra il padre, che aveva il suo stesso nome, proprietario del podere 26 e fiduciario del Fascio, e Giovanni Ciurciullo, un agricoltore della vicina Vittoria. ''Ciurciullo - ricostruisce l' ex carabiniere - disse di avere la sensazione che gli americani li avrebbero fucilati e mio padre condivise la sua impressione''. I due uomini intuirono, dunque, cosa stava per accadere. Qualche minuto dopo ci fu il massacro: gli alleati fecero radunare i coloni e li fucilarono. Le vittime, oltre a Giuseppe Ciriacono, furono Salvatore Sentina e Giuseppe Alba, due agricoltori di Caltagirone, Giovanni Curciullo e il figlio Sebastiano, di soli 14 anni. Il piccolo Giuseppe, unico testimone oculare, scampo' all' eccidio, forse per la sua giovane eta'. ''Un soldato americano mi prese per il colletto - ricorda - e mi fece capire con i gesti che dovevo allontanarmi. Dopo aver percorso venti metri senti' una raffica di mitra, mi voltai e vidi il corpo di mio padre e dei suoi sventurati compagni, a terra senza vita. Non saprei dire perche' decisero di graziarmi e uccisero invece il povero Sebastiano, che era appena piu' grande di me''. Giuseppe, dopo essere stato affidato ad alcuni soldati americani, torno' ad Acate e diede l' allarme. Ma nessuno sembro' credere a quel ragazzino. Il testimone della strage all' inizio non ebbe neppure il coraggio di riferire al fratello che il padre era stato ucciso. Poi, fra le lacrime, si libero' del suo fardello, raccontando tutto alla madre. I familiari si recarono con Giuseppe nel luogo dove i coloni erano stati trucidati e li' trovarono i corpi, gia' in avanzato stato di decomposizione. A vegliare i cadaveri c' era anche uno dei cani del padre del ragazzo. ''Le urla dei miei familiari - ricorda ancora il pensionato sopravvissuto all' eccidio - attirarono gli americani che giunti sul posto fecero brillare alcune mine e nel cratere che era stato provocato dallo scoppio seppellirono i coloni''.

(ANSA). Y3P-KQN - 25/06/2004 09:31


“SICILIA 1943, SETTE SOLDATI USA INDAGATI PER I MASSACRI”
“L’istruttoria della Repubblica militare di Padova dopo l’inchiesta del “Corriere della Sera” e un’altra fonte italiana ricorda: anche a Butera ci arrendemmo e loro spararono”. I nomi: i militari USA indagati per l’uccisione nel ’43 di 73 prigionieri e 8 civili: capitano John Compton, tenente Richard Blanks, sergenti Jim Hair e Jank Wilson, soldati John Gazzetti, Raymond Marlow e John Carrol. Tutto quanto sopra si legge a pag 13 del “Corriere della Sera” del 31 ottobre scorso in un articolo a firma di Gianluca di Feo. C’è anche un secondo piccolo “incorniciato” in cui e detto: “Nuovo caso superstite. Bruno Vagnetti ha descritto la vicenda della sua squadra catturata dagli americani a Butera nel luglio del ’43. <<dopo 700 metri ci spararono alle spalle, Un commilitone morì subito, in tre restammo a terra feriti” . Ed ecco, per intero, il testo dell’articolo di Gianluca Di Feo:
«Gli americani ci sorpresero alle pendici di Butera mentre stavamo caricando il nostro cannone su un camion. Erano le tre di notte del 13 luglio 1943: un bengala illuminò tutto a giorno e loro ci puntarono contro i mitra. Uno ci urlò in dialetto siciliano: "Alzate le mani. Venite accà". Noi obbedimmo. Ci fecero camminare per settecento metri. Poi cominciarono a spararci addosso con i mitra. Io fui centrato nello stomaco, ma sono sopravvissuto». Bruno Vagnetti oggi ha 82 anni: vive a Perugia e non riesce a dimenticare quella notte. E la sua testimonianza va ad allungare l'elenco degli eccidi contro prigionieri e civili compiuti dai militari statunitensi nei primi giorni dello sbarco in Sicilia. Lo scorso giugno, il Corriere ne rivelò cinque. Adesso la lista nera si è allungata e comprende almeno nove differenti episodi. Portano quasi tutti la firma della 45esima Divisione, mentre la vicenda descritta da Vignoni probabilmente è stata opera dei Ranger che espugnarono Butera. Su questi fatti vuole fare luce la Procura militare di Padova, che sta cercando di ricostruire la mappa dell’orrore. Il procuratore Sergio Dini ha identificato e iscritto nel registro degli indagati sette americani che presero parte alle esecuzioni. Ora l'Interpol dovrà accertare se sono ancora in vita: in tal caso, risponderanno della morte di 36 artiglieri, 37 'avieri e otto contadini. Ma la lista rischia di essere molto più lunga e raccogliere più di 220 vittime. I magistrati hanno scoperto i nomi dei sette americani grazie agli atti dei due processi celebrati dagli americani nell'agosto del '43 mentre in Sicilia si stava ancora combattendo proprio di fronte al dilagare di segnalazioni sull'uccisione di prigionieri, vennero subito istruite due corti marziali per giudicare i casi più eclatanti. Una decisione senza precedenti, che forse testimonia la volontà di frenare il ricorso indiscriminato alla vendetta su chi alzava le mani. E' come se l'inattesa resistenza italo-tedesca nella zona di Gela avesse fatto perdere la testa alle divisioni di punta del generale Patton. Alcuni soldati non dormivano da giorni, molti recitano gli atti della corte - erano sotto l'effetto di psicofarmaci. Nel primo processo il sergente Horacio West fu riconosciuto colpevole dell'omicidio di 37 italiani e tedeschi, che lui stava trasportando verso le retrovie. Fu condannato all'ergastolo, ma dopo pochi mesi venne liberato nel timore che la famiglia facesse arrivare ai giornali la notizia del massacro: sarebbe morto combattendo in Bretagna. La seconda corte marziale esaminò il caso del capitano John Compton, che fece fucilare 36 italiani catturati in un bunker dell'aeroporto di San Pietro. Compton fu assolto proprio perché dimostrò che esisteva un ordine di Patton: «Il generale ci ha detto: "Anche se cercano di arrendersi, non lasciateli vivere"». E' quello che accadde alla squadra di Vagnetti. I cinque fanti del 34 o Reggimento con il loro piccolo cannone da 47/32 avevano partecipato al contrattacco di Gela, che stava per far fallire lo sbarco Usa. «Da Butera dovevamo ritirarci su Piazza Armerina. Quando ci hanno sorpreso avevamo posato le armi per spingere il cannone sul camion. Poi quelle raffiche alle spalle, nel buio. Il sergente Baraldo, che veniva dal Veneto, morì subito. Io, un fante calabrese e il sergente Bertamè di Milano venimmo abbandonati feriti. Un quinto uomo, il sergente Tamborino di Milano, invece era praticamente illeso: fu lui a trascinarci lontano dalla strada. Rimanemmo nascosti per ore. Poi chiedemmo aiuto perché perdevamo troppo sangue: una colonna americana ci raccolse. Ma, quando gli raccontavo cosa ci fosse successo, loro ridevano e mi prendevano in giro: "Sei un pazzo, noi non spariamo ai prigionieri"».

Gianluca Di Feo

«Sei un prigioniero italiano? E mi sparò al cuore»
Giuseppe Giannola, scampato tre volte dopo la resa alle esecuzioni degli americani in Sicilia «Eravamo in 50, i miei compagni caddero su di me. Prima le raffiche, poi il colpo di grazia» «Più tardi mi sono alzato ferito dal mucchio dei cadaveri. Un cecchino mi ha colpito alla testa»
Una nuova testimonianza sui militari decimati dai reparti di Patton ore dopo la cattura. «Denunciai tutto nel ' 47, non venni creduto»


DAL NOSTRO INVIATO PALERMO - «Io pensavo che fosse tutto finito. Pensavo a Palermo, la mia città, dove quella sera ci sarebbero stati i botti: sì, era l' alba del 14 luglio 1943, la festa di Santa Rosalia. Da noi, nelle trincee dell' aeroporto di Biscari, non si sentiva più sparare. Dopo quattro giorni di combattimenti avevamo alzato le braccia: noi avieri con i nostri fucilini non potevamo fare di più. Mentre gli americani ci spogliavano, io pensavo alla festa, pensavo a casa. Poi abbiamo camminato sotto il sole: saremmo stati in cinquanta, tutti senza scarpe, a torso nudo, in mutande o con i pantaloni corti. Dopo qualche ora ci hanno fatto fare una sosta, stavamo seduti in un campo all' ombra degli ulivi. Quelli che ci sorvegliavano si sono appartati, fumavano e parlavano. Tempo un quarto d' ora e ci siamo alzati di nuovo: ci hanno fatto mettere su tre file. Io ero in mezzo a quella centrale, accanto avevo due commilitoni, palermitani come me che conoscevo sin da quando eravamo bambini. A quel punto gli americani hanno cominciato a sparare». Giuseppe Giannola non racconta: rivive quei minuti terribili, torna nell' incubo da cui non riesce a liberarsi. Sono 62 anni che sente le raffiche di quel mitra, le urla dei suoi amici, il sangue dei compagni che lo sommerge. Sessantadue anni prigioniero della stessa rabbia, di quell' impotenza e di quella disperazione vissuta mentre i corpi degli altri prigionieri italiani lo seppelliscono, salvandolo una prima volta dal massacro. E piange. Piange senza riuscire a trovare il fiato per parlare ancora. La moglie e i figli gli portano da bere, i nipoti lo circondano: tutti insieme lo pregano di non andare avanti in quel calvario. Ma lui li zittisce con un gesto deciso della mano e chiede solo un fazzoletto per asciugare le lacrime. Vuole proseguire in quel viaggio nel passato. Lo vuole fare per tutti quelli che non sono tornati. «Sono stato colpito subito: un proiettile mi ha spezzato il polso e mi sono buttato a terra. Ho fatto solo in tempo a fissare l' immagine di quel sergente gigantesco, con il tatuaggio sul braccio, che impugnava il mitra. Poi i corpi degli altri mi sono caduti addosso. Non vedevo nulla, sentivo solo quegli scoppi che non sembravano finire mai. Prima raffiche lunghe, quindi delle esplosioni secche, sempre più rare. Erano i colpi di grazia». ALLA TESTA - «Io stavo fermo, con il braccio infuocato e la faccia che si copriva del sangue dei miei amici. Sono rimasto immobile per un paio d' ore, finché il silenzio non è diventato totale. "Se ne sono andati", ho pensato. Lentamente, quasi paralizzato dalla paura, ho spostato i corpi e mi sono alzato. Ho fatto solo in tempo a guardarmi attorno ed è arrivata la fucilata. Ricordo il botto e il calore che mi bruciava la testa. Sono caduto, sorpreso di essere ancora vivo. Il proiettile mi ha preso di striscio, scavando un solco tra i capelli: sarebbe bastato un millimetro più giù per ammazzarmi. Con terrore ho cercato di non respirare. Sapevo che ci doveva essere qualche americano lì intorno, appostato per non lasciare nessuno vivo. Con la faccia a terra credevo di non avere più scampo. Invece nulla». «Non so quanto tempo sia passato. Mi dicevo: "Non muoverti". Ma avevo sete. Il polso spezzato e la ferita alla testa bruciavano. Il dolore ha superato la paura. Mi sono mosso carponi, temendo un altro sparo. Ho camminato così fino a una strada sterrata. Vedevo in lontananza delle colonne di camion americani. Non si sentiva più la battaglia. E' passata un' ambulanza e si è fermata. Si sono resi conto che ero un italiano, ma mi hanno dato da bere e bendato le ferite con attenzione. Poi a gesti mi hanno fatto capire di restare vicino alla strada: "Verranno a prenderti". Io mi sono seduto: avevo solo i pantaloncini, il resto del corpo era impastato di terra e sangue. E' arrivata una jeep con tre soldati. Quelli davanti sono scesi: penso mi avessero scambiato per uno di loro. Mi parlavano sorridendo, poi si sono accorti che non capivo. Li ho visti guardarsi in faccia: quello con il fucile ha indicato all' altro la jeep, lo ha mandato via. E' rimasto solo, in piedi, di fronte a me. Io ero seduto, lui mi fissava. Poi ha imbracciato la carabina, ha mirato al cuore e ha sparato». Giuseppe Giannola ferma il racconto. Manda via moglie e nipoti. Vuole intorno solo i figli maschi. Con orgoglio si toglie la camicia. Sa che per comprendere il miracolo bisogna vedere. Il suo fisico è forte nonostante gli 88 anni. Mostra la cicatrice sul petto, lì dove la pallottola è entrata. Poi si gira: sulla schiena c' è un cratere, come se degli artigli avessero strappato la carne. Una ferita accanto al cuore, che nulla potrà mai cancellare. Come l' incubo che si porta dentro. L' angoscia per quei commilitoni rimasti sotto gli ulivi. Recupera dagli appunti dell' epoca pochi cognomi: Raimondi, Argento, Del Pozzo, Macaluso, Giacalone. Puntella la memoria con le copie ingiallite delle denunce che ha ripetuto per due volte nel 1947. Relazioni ricostruite mettendo insieme i ricordi sopravvissuti ai lunghi ricoveri nei quali i medici britannici gli salvarono la vita. Giannola non sapeva che in quel 14 luglio 1943 altri prigionieri italiani subirono la stessa sorte. Ha ignorato, fino agli articoli del Corriere dello scorso giugno, che la ferocia di quelle esecuzioni aveva spinto persino il comando Usa a processare d' urgenza due dei fucilatori. DENUNCE IGNORATE - Nessuno invece in Italia ha mai preso in considerazione le relazioni di Giannola. Come nessuno ha mai dato attenzione al racconto dell' artigliere veneto Virginio De Roit, che sempre dopo la resa sull' aeroporto di Biscari si salvò dall' eccidio del suo reparto. Stesso destino per le accuse del fante perugino Bruno Vagnetti, il cui plotone venne crivellato dopo la cattura a Licata. Le denunce sui crimini a cui avevano assistito sono rimaste lettera morta, confuse tra pile di pratiche con richieste di pensioni o di assistenza medica negli armadi di qualche ministero. Per anni sono stati derisi: «Avete visto il film sbagliato. Gli americani non ammazzano i prigionieri, lo fanno i tedeschi». Altre volte si sono trovati alle prese con una burocrazia tanto spietata quanto confusa, che non riusciva a inquadrare nei suoi moduli le ferite inflitte dopo la resa: al ritorno in Italia, Giannola venne persino dichiarato disertore, salvo poi ricevere due medaglie. Adesso chiedono giustizia alla magistratura militare ma soprattutto chiedono che venga onorata la memoria dei loro commilitoni, vittime dimenticate degli ultimi giorni della «guerra fascista». Gli americani hanno cercato di fare subito i conti con quello che stava accadendo. Le denunce degli eccidi nella zona di Gela nei primi giorni dopo lo sbarco in Sicilia sono apparse inaccettabili. Una situazione così drammatica da spingere a celebrare immediatamente due corti marziali nei confronti di un reparto - il 180mo reggimento - impegnato in prima linea, chiamando alla sbarra anche un «eroe», il capitano James Compton. Lui e il sergente Horace West furono giudicati per due fucilazioni, costate la vita ad almeno 73 prigionieri italiani. Il loro arresto fu una misura eccezionale ordinata dal generale Omar Bradley in persona dopo i resoconti sull' uccisione indiscriminata di chiunque alzasse le mani nel quadrante della 45ma divisione, tra Caltagirone e Gela, dove più dura fu la resistenza del Regio Esercito e dei tedeschi: quattro giorni di scontri corpo a corpo, con continui contrattacchi e il rischio concreto che lo sbarco fallisse. Le testimonianze raccolte da storici come Stanley Hirshson della New York University e quelle rintracciate dal Corriere ora fanno ipotizzare un numero di prigionieri uccisi tre volte più alto: anche civili - ha ricostruito Gianfranco Ciriacono - furono assassinati senza motivo. Una follia collettiva, stando agli atti della corte marziale, che contagiò interi battaglioni. «Vidi quelle cataste di corpi, parecchi con un colpo alla nuca - testimoniò il cappellano William King -. Molti soldati correvano da me: "E' una pazzia, stanno ammazzando tutti i prigionieri. Padre, faccia qualcosa"». L' ORDINE DI PATTON - I militari incriminati ebbero facile difesa. Ripeterono davanti ai giudici l' ordine impartito dal loro comandante, George Patton: «Ci era stato detto che il generale non voleva prenderli vivi. Il suo discorso era stato chiaro: "Non badate alle mani alzate, si fottano: nessun prigioniero. Mirate tra la terza e la quarta costola, poi sparate"». Proprio dove ha mirato quel soldato che trovò l' aviere Giannola ferito e seminudo, chilometri lontano dal fronte. Grazie all' ordine di Patton il capitano Compton fu assolto: morì sei mesi dopo, alle porte di Cassino, combattendo fianco a fianco assieme a soldati italiani diventati suoi alleati: è sepolto nel sacrario di Anzio. Il sergente West, condannato all' ergastolo, fu scarcerato dopo pochi mesi per evitare che la notizia delle stragi finisse sui giornali. L' inchiesta sulle responsabilità di Patton fu archiviata nel giugno ' 44, quando il generale tornò determinante per le sorti degli alleati in Normandia. Ma gli storici americani non hanno dimenticato. Da almeno venti anni discutono di quel momento nero in Sicilia, di quei quattro giorni in cui l' invasione ha rischiato di fallire. A causa dell' impreparazione dell' armata di Patton ma anche della inattesa resistenza italiana, di quei soldati straccioni che restavano nelle trincee fino all' ultima cartuccia dei loro vetusti moschetti ' 91. Perché in quei quindici giorni tra lo sbarco e l' arresto di Mussolini gli americani non erano i liberatori: per soldati e civili erano ancora gli invasori, quelli che bombardavano le case. LA BATTAGLIA - Giannola è uno di quelli che hanno combattuto, nonostante fosse un semplice aviere senza nessuna simpatia per il fascismo. «Io ero un autista, avevo già fatto servizio nelle basi in Libia. Poi nel ' 43 sono stato assegnato all' aeroporto di San Pietro (che gli alleati chiamavano Biscari, ndr): una pista costruita nei boschi tra Caltagirone e Acate. Il 10 luglio il maggiore ci ha detto: "E' ora di fare il nostro dovere". Sono stati distribuiti i moschetti: i vecchi fucili "91" della Grande Guerra. Due giorni dopo siamo usciti di pattuglia per dare la caccia ai paracadutisti americani. Io e un mio commilitone ne abbiamo catturati due. Erano colossi con la testa rasata, armati fino ai denti: mitra, pistole, granate, coltelli. Il 13 ci siamo schierati nelle trincee intorno alla pista. Il primo attacco è cominciato nel pomeriggio: abbiamo sparato per più di un' ora, un caricatore dietro l' altro. Si sentivano cannonate dovunque. Li abbiamo respinti ma non potevamo fare di più. Dopo il tramonto, il tenente ci ha radunato al centro del bunker, l' ultimo caposaldo: "Avieri, vi siete battuti bene". Non sapevo che a quelli dell' esercito era stato ordinato di ripiegare nel buio verso Caltagirone. Siamo rimasti lì sotto, ad aspettare: forse volevano che coprissimo la ritirata degli altri. Prima dell' alba i nemici hanno circondato il rifugio. Due bombe sono esplose davanti alle uscite. Ci hanno urlato di venire fuori con le mani alzate e abbiamo obbedito. Siamo stati perquisiti, ci hanno tolto tutto, lasciandoci in mutande o con i pantaloni corti. Hanno buttato via le scarpe per impedirci di correre. Poi ci hanno fatto marciare verso la costa. Dopo poco, una trentina di artiglieri sono stati uniti al nostro gruppo. I sorveglianti? Erano in otto. Non rammento i loro volti, mi sembra che qualcuno parlasse un poco di italiano. L' unico che ricordo era quel sergente gigante, con il tatuaggio sul braccio e il mitra che sparava, sparava, sparava». Gianluca Di Feo Le stragi ignorate La storia Ferito tre volte Giuseppe Giannola fu catturato dagli americani il 14 luglio 1943 nell' aeroporto di San Pietro di Caltagirone, Biscari per gli alleati. Sopravvissuto al massacro del suo gruppo, venne ferito altre due volte. L' ultimo a sparargli fu un soldato sceso da una jeep che mirò al cuore. In Italia Accuse non credute Giannola ha riportato ferite gravi al polmone e al polso. Ricostruì il massacro dei suoi commilitoni due volte nel 1947, fornendo tutti i dettagli agli ufficiali dell' Aeronautica incaricati di determinare l' origine delle sue ferite. Non venne creduto e ha smesso di raccontare la sua vicenda Negli Usa I due processi La corte marziale americana nel 1943 celebrò due processi per le uccisioni di 73 prigionieri italiani avvenute il 14 luglio nella zona dell' aeroporto di Biscari. Ma studi americani e testimonianze raccolte dal «Corriere» portano il bilancio degli eccidi a oltre 200 vittime Indagine La nuova inchiesta La procura militare di Padova ha aperto un' inchiesta sugli eccidi, partendo dalla testimonianza di Virginio De Roit, uno dei superstiti: sono stati identificati 7 dei presunti fucilatori americani. Ora il fascicolo è stato trasferito a Palermo, dove è stato interrogato Giannola.

Gianluca Di Feo

Corriere della Sera 03,03,2005
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Si veda il link
www.ilcovo. etc

topic /sicilia-1943-crimini-e-stragi-compiute-dagli-americani-vt62.html
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[size=7]«La testimonianza di Virginio De Roit, scampato per miracolo a un eccidio di prigionieri inermi compiuto da soldati americani
«Ci eravamo arresi, e i liberatori spararono»


Virginio De Roit ha 92 anni e da sessantuno è un sopravvissuto. Il 14 luglio 1943 è scampato alla fucilazione in Sicilia, da parte di un reparto statunitense, nei pressi dell' aeroporto di Santo Pietro, frazione di Caltagirone. Lui e un compaesano veneto, Silvio Quaiotto, l' hanno evitata con una fuga fortunosa, benché la povera mente di Quaiotto ne sia uscita sconvolta, rifiutando ogni contatto con la realtà. Ventinove italiani e quattro tedeschi rimasero, invece, vittime di una furia sanguinaria e inspiegabile. «Ancora oggi - afferma De Roit - ignoro chi fossero e perché lo fecero. Dopo la guerra me l' hanno chiesto i padri, le madri, i figli, le spose dei miei sventurati commilitoni, venuti fin qui per avere informazioni e capire. Io ogni volta ho potuto solo allargare le braccia». In base alla disposizione delle truppe alleate nei primi giorni dello sbarco, i loro carnefici molto probabilmente appartenevano alla 45a divisione del generale Troy Middleton, la stessa che sempre il 14 luglio si macchiò della carneficina di settantatré militari italiani dopo la resa di un altro aeroporto, Acate. Proprio la lettura di quest' episodio, prima sul mio libro Arrivano i nostri, in seguito nello splendido approfondimento di Gianluca Di Feo sul Corriere della Sera, ha indotto un nipote di De Roit, Raffaello Maggian, sociologo e docente all' Università di Trieste, a inviarci un' e-mail. Raccontava l' odissea dello zio e il suo cruccio per il silenzio che ha circondato la strage, di cui a Caltagirone esiste una vaga traccia in un libro di storia locale. De Roit ricorda fra sussulti e silenzi, spesso preda di un' intensa emozione: il fronte greco, i diciotto mesi in Sicilia, il corso per diventare caporale della 3a compagnia, CLIII battaglione mitraglieri. Prima della promozione si erano presentati il 10 luglio gli anglo-americani. Un arrivo ampiamente previsto, anticipato da sei mesi di bombardamenti aerei. Il pomeriggio del 7 aprile, una domenica, la compagnia aveva pagato un prezzo altissimo: sette morti e l' accampamento distrutto. Sorgeva attorno all' aeroporto militare di Santo Pietro: una lingua di terra tra aranceti e vigneti, modellata alla bell' e meglio allo scoppio del conflitto. Nonostante l' incubo delle incursioni dal cielo, non vivevano male: avevano arance, limoni, uva, carciofi, la novità dei gelsi neri. Compravano il vino dalla famiglia Verdone e durante la lunga estate siciliana s' immergevano nelle acque del fiumiciattolo Ficuzza, che scorre nei pressi e dava il nome a un immenso feudo. Per difendere l' aeroporto gli italiani avevano duecento uomini e sette mitragliatrici Breda; i tedeschi della divisione corazzata Goering avevano aggiunto un cannoncino con quattro artiglieri e un bunker leggermente defilato rispetto alla pista. Intorno alla mezzanotte del 13, pervenne l' ordine di raggiungere Santo Pietro per salire sugli autocarri germanici e filarsela assieme ai camerati. All' improvviso scoppiò l' inferno attorno al bunker presidiato da quattro tedeschi e da quattro italiani del 122° reggimento. Era sopraggiunta una colonna nemica. Il gruppo di De Roit finì in mezzo alla tempesta di fuoco. I difensori si arresero. Italiani e tedeschi furono depredati di portafogli, collanine, ciondoli, orologi, anche se di modesto valore come il Meda di De Roit. Rimasero in mutande. Camminando a piedi nudi su stoppie e rovi furono portati fino allo spiazzo accanto al sughereto. Ricevettero l' ordine di scavare una fossa e di mettersi in fila per due. Poi «Un negro dalla faccia brutta - scandisce De Roit - impugnò il parabellum e cominciò a sparare al petto dei primi due, che erano tedeschi. Dopo ammazzò gli altri due tedeschi. Il primo italiano a cadere fu il caporale Luigi Giraldi di Brescia. Ne caddero tanti di bresciani: Attilio Bonariva, Santo Monteverdi, Leone Pontara, Battista Piardi, Gottardo Toninelli, Pietro Vaccari, Mario Zani, Celestino Bressanini. Cadde il mio compaesano Aldo Capitanio. Cadde il bello della compagnia, il magazziniere Angelo Fasolo di Camin, nel padovano. Cadde Salvatore Campailla, che era un siciliano, ma faceva il postino a Nervi. Cadde Sante Zogno di Lodi. A quel punto io urlai: "Tusi, scapemo"(ragazzi, scappiamo). Mi lanciai verso il fiume con Silvio Quaiotto ed Elio Bergamo di Ancona. Quelle bestie non se l' aspettavano. Guadagnammo metri preziosi, sentimmo alle nostre spalle che in parecchi si erano messi a sparare: abbatterono i nostri compagni, quindi vennero a cercarci. Noi stavamo acquattati nell' acqua. Io e Quaiotto ci mettemmo sotto un groviglio di arbusti, mentre vidi che Bergamo aveva la testa di fuori. Le bestie tirarono alcune sventagliate di mitra. Capii che andavano a prendere il lanciafiamme. Mi diressi verso la riva opposta. Non mi videro. Trovai rifugio nel fossato sotto un albero di prugne. Giunse anche Quaiotto. Era completamente sotto choc, non faceva altro che toccare il rosario attorno al collo. Al momento di andarsene le bestie incendiarono il terreno attorno al fiumiciattolo. Alle 11 era tutto finito. Bergamo non lo vedemmo più. So soltanto che a casa sua non è mai arrivato». Bergamo era stato ucciso sotto gli occhi di Giacomo Lo Nigro. Aveva diciassette anni, abitava di fronte al bunker. Richiamato dalle raffiche, aveva assistito al breve scontro, alla fucilazione, alla fuga dei tre, alla scarica che aveva freddato Bergamo nel fiume. Lo Nigro è stato rintracciato nel 2000 dal professor Maggian, durante un seminario presso l' istituto Sturzo di Caltagirone. Lo ha fatto parlare al telefono con lo zio. Assieme hanno rivissuto il salvataggio di quei giorni: le prugne divorate per placare la fame, la notte trascorsa in un vigneto, il riparo nella stalla dei Verdone, il pane e il formaggio inviati dalla signora Verdone con il figlio. De Roit e Quaiotto furono accolti dai fratelli Giuseppe e Totò Spadaro, in seguito De Roit si trasferì nel feudo Cucuzza, amministrato da Francesco Signorelli. Qui aspettò la fine della guerra, ricambiando l' ospitalità con la sua abilità da falegname. Ritornò a Santa Maria di Camisano, in provincia di Vicenza, perché una ragazza l' aspettava dal 1939. Alfio Caruso Il superstite del massacro Virginio De Roit (nella foto), soldato di stanza in Sicilia nel luglio 1943, sopravvisse fortunosamente a un massacro di prigionieri inermi compiuto da truppe americane appena sbarcate. Sulle atrocità degli alleati nell' isola, a lungo trascurate o addirittura ignorate dalla storiografia, il Corriere ha pubblicato un' ampia ricostruzione in due puntate di Gianluca Di Feo il 23 e il 24 giugno.

Caruso Alfio

Pagina 21

(9 agosto 2004) - Corriere della Sera

Fonte: http://archiviostorico.corriere.it/2004/ag...040809052.shtml

Edited by Peppero - 7/9/2012, 00:39
 
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view post Posted on 6/3/2012, 21:40
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Guardate cosa accade nel seguente filmato a partire da 9:38

www.youtube.com/watch?v=AEu8ZvCPoSQ&feature=related
 
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view post Posted on 6/3/2012, 23:20
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Potrebbe essere uno dei fatti citati, visto che tra 9.37 e 9.45 si vedono persone con le mani alzate ed un drappo bianco, gesto di chiara resa, falciate dal fuoco dei marines.
 
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Daniele Italico
view post Posted on 7/3/2012, 06:36




Legionarivs, ricordati di postare anche il link del sito dove hai trovato gli articoli,
altrimenti il messaggio verrà tolto come da regolamento. Grazie.
 
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view post Posted on 6/9/2012, 23:41
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Li ho aggiunti, Daniele, tranne quello del sito il Covo, che probabilmente ha qualche protezione e non permette di essere trascritto...
 
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Legionarivs
view post Posted on 7/9/2012, 10:52




Grazie infinite Peppero. Avevo ricercato anch'io i link originali, ma non li avevo ritrovarti.
Penso che forumcommunity non lasci mettere i link della mastertopforum per motivi di concorrenza.
 
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GIUSEPPE MAZZINI
view post Posted on 7/9/2012, 12:14




niente di nuovo purtroppo......secondo me non è un caso l'incidente che ha tolto di mezzo patton appena dopo la fine della guerra....personaggio troppo scomodo ,non solo per il suo carisma ingombrante,ma anche per alcuni fatti di cui avrebbe potuto parlare....
 
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view post Posted on 7/9/2012, 13:23
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C'è un mistero che circonda la sua morte, infatti. C'è chi tira in ballo i russi, chi lo spionaggio americano, chi i servizi segreti tedeschi, chi la mafia... :coffee:
 
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view post Posted on 5/3/2014, 16:29

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QUEI CIVILI MORTI CHE QUALCUNO VOLEVA CANCELLARE
NON ho cercato i 78 civili caduti durante lo sbarco alleato nel settore di Licata. Non li ho cercati perché non sapevo che esistessero. Di loro non c' era memoria collettiva perché dimenticati. E tali sarebbero rimasti per sempre se non avessi iniziato - sul finire dell' anno 2000 - a raccogliere le testimonianze dei licatesi che assistettero all' operazione Husky, la notte del 10 luglio 1943 quando la guerra arrivò dal mare talmente coperto di navi da sembrare "ncurdunati" mentre una marea di soldati americani - 27.000 fanti della III Divisione di fanteria del generale Truscott e della II corazzata - si riversava sulle quattro spiagge prima, nella città dopo. Un evento che nell' immaginario collettivo non aveva lasciato sul campo né vittime tra la popolazione civile - al massimo una o due - e neppure tra i militari. In realtà nel cimitero degli Americani, costruito alla periferia della città, furono sepolti i 173 fanti americani, oltre 123 italiani e 40 tedeschi caduti nel settore Joss (Licata). Quattrocentoquattordici vittime sparite nel nulla. Una rimozione collettiva controversa che però ha cominciato ad incrinarsi man mano che raccoglievo le testimonianzee si andava delineando una nuova realtà dello sbarco, non più indolore, non festa, fatta di soldati americani che lanciavano caramelle, cioccolati, scatolette e chewing-gum mentre la gente applaudiva, quanto piuttosto un evento storico complesso dentro cui guardare con maggiore lucidità. Non avevo cercato le vittime, le ho trovate dentro racconti scarni ed essenziali, ricordi cristallizzati dove improvvisamente tra lembi di dolore cupo o stupore raggrumato riemergevano, dopo circa sessant' anni nella loro nitidezza, i 73 civili caduti. Così per i fratelli Farruggio, Domenico e Salvatore, 14 e dodici anni, uccisi dai Rangers nella loro "roba" addossata alla collina che guarda al mare; così per Gerlando Peruga, soldato in licenza, caduto per la giubba militare che la mamma gli aveva messo addosso per ripararlo dai morsi della tramontana nella notte in cui il mare era illuminato come per la festa di Sant' Angelo e invece vomitava soldati e cannonate; o l' uomo colpito da una granata arrivata dal mare, Vincenzo Porrello, rimasto tra le braccia della moglie inebetita dietro un filagno di fichidindia, inutile barriera al mare divenuto cattivo; o così per Angela, la bimba Peritore, che la mamma stringeva al petto e la sentiva calda «Nenti ni ficimu» esclamava dopo lo scoppio della bomba, mentre la bimba aveva il ventre squarciato; e fu così per i fratelli Nicaso: uno morto, uno rimasto cieco e un altro che ha convissuto con schegge nel corpo per una bomba a mano lanciata nel rifugio. Tante storie riemerse, tanti nomi di caduti che avrei dovuto affidare alla memoria storica dopo la necessaria verifica sui documenti. Ed è stato a questo punto che ho iniziato a cercare le vittime. Le ho cercate dentro carte ingiallite, registri polverosi, nomi siglati in bella grafia con inchiostro nero. E non le ho trovate. Ho trovato altro: i loro nomi c' erano, erano regolarmente registrati ma questi erano deceduti nella propria civile abitazione per causa naturale, gli altri erano morti sul campo di battaglia. Delle due versioni quale era la vera? A chi credere: alle carte o ai parenti? Non potendo e non volendo arrendermi, ho continuato a cercare riscontri sino a quando non ho trovato l' ultima spiaggia: effettuare un' ulteriore verifica sulle cartelle degli eliminati che ogni comune compila prima di cancellare i nomi dei deceduti dagli elenchi generali. E qui finalmente, sul retro di una cartella rosa, usurata, ho trovato la registrazione di morte con la dicitura: per fatti bellici. Adesso in Piazza della Vittoria, di fronte alla lapide bronzea che ricorda lo sbarco della VII Armata Usa, su una pietra eretta a imperitura memoria sono scolpiti i nomi dei 78 civili caduti. Ma Licata ha davvero voglia di ricordare?
CARMELA ZANGARA

http://ricerca.repubblica.it/repubblica/ar...cancellare.html

Edited by Peppero - 5/3/2014, 18:11
 
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Troppo spesso la guerra trasforma gli esseri umani (di qualsiasi nazionalità essi siano) in mostri...
 
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