| grazie dell'approvazione, Peppero! Aggiungo ancora che anche i militari dell'esercito austro-ungarico combattenti sul fronte italiano sovente uccidevano i feriti sul campo di battaglia, servendosi per questo delle loro mazze ferrate. Sono molte le testimonianze oculari in proposito. Le mazze erano state fornite in dotazione ai reparti austro-ungarici per il combattimento corpo a corpo, ma erano spesso impiegate per uccidere i feriti. È degno di nota che esse caddero gradualmente in disuso perché il loro impiego risultava disgustoso persino ai soldati imperial-regi, causa le conseguenze al momento dell’impatto. Il primo utilizzo delle mazze sul fronte italiano pare sia avvenuto durante la battaglia del Monte S. Michele del 29 giugno 1916, quando i reggimenti ungheresi della 7ª e 20ª Honved adoperarono le mazze per finire i soldati italiani in agonia per i gas asfissianti. Risulta che questi militari riceverono poi un distintivo di riconoscimento dalle proprie autorità militari in ricordo dell’”impresa” compiuta.
IL DISTACCO DELLE CLASSI DIRIGENTI ITALIANE DALL’AUSTRIA La storiografia riteneva, sino a circa vent’anni addietro, che fossero stati favorevoli all’Unità principalmente le classi “alte” dell’aristocrazia e della borghesia, di cui appariva evidente ed innegabile il consenso massiccio ed in alcune regioni quasi unanime, mentre invece sosteneva che le classi popolari fossero state indifferenti e talora persino ostili. Questa posizione tradizionale si è radicalmente modificata con gli studi più recenti, i quali hanno dimostrato che anche l’artigianato, il ceto operaio, le masse rurali furono largamente sostenitrici dell’Unità, certo con molte variazioni d’accento e motivazioni. Ciò che è avvenuto grazie ad un ampliamento profondo delle conoscenze, dovuto ad un cambio di paradigma (per una introduzione a tali nuove prospettive: BANTI, La nazione del Risorgimento; BANTI – GINSBORG, Per una nuova storia del Risorgimento, in Storia d’Italia. Annali 22. Il Risorgimento, p. XXIII-XLI. ). È infatti cresciuta l’attenzione verso determinate fonti quali la letteratura minore, l’immenso patrimonio delle canzoni popolari, il teatro dei burattini (popolarissimo nell’Ottocento), la scelta dei nomi per i figli ecc. ecc., in breve per tutte le fonti che possono testimoniare riguardo alla mentalità ed al comportamento dei ceti popolari. Il risultato è stato per certi aspetti sorprendente ed ha provato come l’adesione agli ideali risorgimentali sia stata in buona misura condivisa dai ceti popolari. Questo è sicuramente vero per la Lombardia e per il Veneto, due regioni che svilupparono negli anni del Risorgimento un patrimonio canzonettistico, orale ecc. decisamente patriottico ed antiaustriaco. Però, la classe che era veramente contraria, nella totalità o quasi, al dominio asburgico era nel regno del Lombardo-Veneto proprio l’aristocrazia italiana. Questo avveniva sia per ragioni ideali (aveva una grande diffusione presso di essa il patriottismo), sia per motivazioni più estesamente culturali. La nobiltà lombarda e veneta era molto diversa da quella austriaca od austro-boema, assai più colta, economicamente intraprendente ed aperta di mentalità, ed inoltre era legata per tradizione ad una forma di stato che era di tipo non assolutistico, poiché il potere del sovrano era limitato da prerogative dei poteri locali (Lombardia) oppure grazie alla struttura repubblicana (Veneto e territori veneziani). Marco Meriggi, autore d’un basilare studio sul Lombardo-Veneto (ll regno Lombardo-Veneto, Torino 1987), osserva in proposito: ““Ma la nobiltà lombarda e quella veneta erano repubblicane, assai più che monarchiche; e da secoli, nell’area tutelata della loro autonomia cittadina, avevano fatto dell’autogoverno, e non del cogoverno insieme ad un monarca, il senso della propria esistenza. Quell’abitudine al «vivere civilmente» nelle ricche residenze cittadine, che le caratterizzava e che destava un senso di sgomento e di soggezioni nei «rustici» nobili austro-boemi poco adusi al lusso raffinato della cultura urbana, era la diretta proiezione di un’origine mercantile ed affaristica, assai più che guerriera e feudale, che risaliva idealmente alle grandi stagioni dell’epoca comunale e rinascimentale”. (MERIGGI, Il Regno, cit., p. 145). Il contrasto s’accresceva per le differenze profonde di pensiero politico fra l’aristocrazia italiana, nella quale era diffusa da secoli una mentalità repubblicana, e quella austriaca, prettamente feudale: “L’adesione di molti nobili non solo ai piani del liberalismo monarchico e neocetuale […] ma anche a quelli del repubblicanesimo mazziniano era facilitata, in Italia, da quella vocazione plurisecolare municipalistico-cittadina e repubblicano-oligarchica che rendeva, agli occhi di chi era immerso nella temperie culturale e ideologica della nobiltà imperiale, così estraneo il mondo dell’aristocrazia patrizia nord-italiana rispetto agli istituti traenti dell’antico regime europeo a base feudale” (MERIGGI, Il regno, cit., p. 322). “Ma la nobiltà lombarda e quella veneta erano repubblicane, assai più che monarchiche; e da secoli, nell’area tutelata della loro autonomia cittadina, avevano fatto dell’autogoverno, e non del cogoverno insieme ad un monarca, il senso della propria esistenza. Quell’abitudine al «vivere civilmente» nelle ricche residenze cittadine, che le caratterizzava e che destava un senso di sgomento e di soggezioni nei «rustici» nobili austro-boemi poco adusi al lusso raffinato della cultura urbana, era la diretta proiezione di un’origine mercantile ed affaristica, assai più che guerriera e feudale, che risaliva idealmente alle grandi stagioni dell’epoca comunale e rinascimentale”. (MERIGGI, Il Regno, cit., p. 145). Il contrasto s’accresceva per le differenze profonde di pensiero politico fra l’aristocrazia italiana, nella quale era diffusa da secoli una mentalità repubblicana, e quella austriaca, prettamente feudale: “L’adesione di molti nobili non solo ai piani del liberalismo monarchico e neocetuale […] ma anche a quelli del repubblicanesimo mazziniano era facilitata, in Italia, da quella vocazione plurisecolare municipalistico-cittadina e repubblicano-oligarchica che rendeva, agli occhi di chi era immerso nella temperie culturale e ideologica della nobiltà imperiale, così estraneo il mondo dell’aristocrazia patrizia nord-italiana rispetto agli istituti traenti dell’antico regime europeo a base feudale” (MERIGGI, Il regno, cit., p. 322). Il distacco della nobiltà lombarda e veneta dal dominio asburgico fu radicale e viene testimoniato da una serie di fatti ben noti: il ristrettissimo numero di ufficiali lombardo-veneti, quasi inesistente; l’impossibilità di costituire una “guardia nobile” per il Vicerè di Milano, malgrado tutti gli sforzi delle autorità imperiali; il rifiuto reciso della stragrande maggioranza dei casati più importanti di Venezia e Milano di partecipare ai ricevimenti offerti dall’imperatore Francesco Giuseppe in queste due città, ossia il rifiuto d’incontrare l’imperatore. Ad esempio, uno dei più importanti ed autorevoli biografi di Francesco Giuseppe, l’austriaco F. Herre (F. HERRE, Francesco Giuseppe, Milano 1990), racconta che quando questo sovrano giunse a Milano fu necessario pagare (PAGARE) alcune migliaia di contadini affinché il Kaiser avesse un minimo di seguito al suo ingresso in città, dove altrimenti nessuno lo avrebbe accolto. “Al ricevimento ufficiale, gli austriaci rimasero fra loro: c’erano solo due parvenus della società milanese, che erano dovuti passare correndo fra gli sguardi malevoli di coloro che facevano buona guardia davanti al palazzo”. Le autorità imperiali sapevano bene dell’ostilità di tutti i ceti italiani ed in particolare della nobiltà, tanto che il maresciallo Radetzky giunse a minacciare le classi dirigenti italiane d’una operazione radicale di “pulizia etnica”, agitando il pericolo di una ripetizione in Italia delle “stragi di Galizia”, nelle quali l’aristocrazia polacca locale aveva subito massacri con la connivenza dei funzionari imperiali. Questo stesso generale affermò che bisognava “slavizzare la Dalmazia per toglierla alla pericolosa signoria intellettuale di Venezia alla quale le popolazioni italiane si rivolgono con eccessiva ammirazione”.
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