| Van Hanegem |
| | No, carissimo... Con il trattato col quale la Sardegna passava ai piemontesi veniva esplicitamente detto che rimanevano in vigore le vecchie consuetudini (feudali) locali. Di conseguenza alcune consolidazioni normative come le "Leggi e costituzioni di Sua maestà" emanate da Vittorio Amedeo II valevano per la terra ferma e non per la Sardegna. Riporto un breve stralcio in proposito: La situazione era inalterata quando la Sardegna passò alla Casa Savoia nel 1720; il regime feudale, introdotto male dagli aragonesi, affermatosi nell'epoca spagnola nei suoi aspetti più negativi, dovuti in parte alla mentalità retriva e al troppo potere dei feudatari, in parte alla debolezza della Corte di Madrid, timorosa di intaccare i privilegi del ceto feudale, che era uno dei maggiori esponenti dello Stato, rimase radicato per quasi tutto il periodo della dominazione sabauda. Per di più, in base al trattato che poneva la Sardegna con titolo regio alle dipendenze di Vittorio Amedeo II, i grandi feudatari spagnoli, che possedevano estesi territori nell'isola, continuavano a mantenere il possesso delle loro terre e gli antichi benefici e privilegi. Lo Stato sabaudo, che aveva perso la Sicilia e aveva ottenuto in cambio la Sardegna con un reddito inferiore, si trovò di colpo a dover affrontare una serie di problemi, le cui origini erano lontane nel tempo, e a risolvere una situazione economica veramente difficile, anche perché la Sardegna aveva risentito della crisi attraversata dalla Spagna un secolo dopo la scoperta dell'America e i mali dell'isola, a causa dei rimedi insufficienti, erano diventati a mano a mano più gravi. La Corte di Torino non ebbe subito, né poteva averla, una visione organica dei vari problemi e per le finanze adoperò lo stesso atteggiamento della Corte di Madrid, una politica cioè di equilibrio, di pareggio, per quanto possibile, delle uscite del bilancio sardo con le entrate della stessa isola. I problemi sardi sfuggivano ai dirigenti sabaudi per vari motivi. Anzitutto le caratteristiche della pastorizia e dell'agricoltura dell'isola erano differenti da quelle del Piemonte, inoltre gli stessi dirigenti ignoravano le tradizioni, i costumi della Sardegna e, presi come erano dalle necessità di affermare il proprio dominio e da quella di trarne un utile, vedevano la società sarda in funzione di tale principio. Si ebbero tuttavia da parte del governo piemontese provvedimenti proficui a sanare determinati mali, ma furono provvedimenti parziali, che talvolta non raggiunsero in pieno gli effetti desiderati, come quello relativo al ripopolamento dell'isola, e che non toccarono il regime feudale. Il feudalesimo, infatti, seppur Carlo Emanuele III tentò di diminuire i privilegi feudali, si mantenne con le sue vecchie strutture. Proprio all'epoca di Carlo Emanuele III, nel 1744, si ebbe un progetto per il riscatto dei feudi in possesso di nobili residenti in Spagna. Il progetto, suggerito principalmente dalla necessità di lasciare nell'isola l'utile dei feudi, molto elevato, che veniva goduto nella penisola iberica, avrebbe portato, se realizzato, notevoli vantaggi; infatti, i feudatari residenti in Spagna possedevano all'incirca la metà dell'Isola e i loro territori, estesissimi, si sarebbero potuti dividere tra molti signori con l'obbligo della residenza; i vassalli sarebbero stati sottratti alle angherie dei podatari, avrebbero raggiunto migliori condizioni di vita e la Corte con le nuove infeudazioni avrebbe potuto disciplinare i rapporti fra feudatari e vassalli. Ma il progetto fu causa di contrasti tra le due Corti di Torino e di Madrid e fu abbandonato sul nascere. I vassalli, intanto, continuarono a vivere nella stessa situazione dell'epoca precedente, anzi talvolta in condizione peggiore. Notava un conoscitore della Sardegna e dei suoi abitanti, il Mimaut, che “non vi erano infelici e persone da compiangere pari ai vassalli delle campagne, che gemevano curvi sotto il peso di corvèes, imposte e mali di ogni genere, ma erano nati per servire e nessuno si occupava della loro sorte”. Sotto i Savoia gli abusi feudali talvolta si allargarono; molti feudatari, approfittando del fatto che i diplomi di concessione non stabilivano i diritti signorili oppure, se li stabilivano, gli stessi diplomi restavano segreti, imposero prestazioni non dovute ai vassalli; altri pretesero dai loro sottoposti versamenti che nessun diploma, nessuna concessione avrebbe potuto prevedere; così, ad esempio, i vassalli di Montemaggiore furono obbligati a versare al loro signore, il Duca dell'Asinara, inutilmente richiamato dalla Corte per i suoi soprusi, un contributo di grano in più per compensare quello che i topi gli mangiavano nel magazzino. D'altra parte il governo piemontese, che aveva una delle sue basi nell'elemento feudale, non poteva agire a fondo; poteva stendere sì un progetto come quello del 1744, che andava a favore di nuovi feudatari, poteva tentare di arginare con le dovute cautele gli abusi feudali tributari e giurisdizionali, ma si trovava di fronte a un ceto nobiliare troppo potente e talvolta la sua attività si esprimeva in disposizioni o richiami di poco significato. Frattanto il malanimo si sviluppava maggiormente; nelle masse, ignoranti, prive purtroppo di coscienza politica, l'astio si trasformava in odio nei confronti dei feudatari e del regime feudale; i vassalli, gravati, impoveriti, sottoposti ad ingiustizie, supini ad ogni prepotenza, privi di espressione, vedevano soltanto nel feudatario l'unica causa dei loro mali e non la intravedevano nel sistema. E dal malanimo, dall'odio represso, sull'esempio della Rivoluzione Francese e delle nuove correnti, scaturivano in Sardegni i noti moti del 1793-1796 contro i Piemontesi e la tirannide feudale, che, proprio per la mancanza di una coscienza politica, cadevano nel nulla. Il moto contro i feudatari, capeggiato da un giudice della Real Udienza, Giovanni Maria Angioi, percorse tutta l'isola e parve per un momento che la fine del feudalesimo fosse giunta. L'odio dei vassalli che, insorti contro il fiscalismo feudale e contro l'amministrazione della giustizia nei feudi, saccheggiavano e abbattevano i palazzi dei loro signori, mantenendo inalterata la loro fedeltà al sovrano, si esprimeva anche in un canto popolare, composto dal Mannu. Ma la rivolta si spegneva con il volontario esilio dell'Angioi e altri moti antifeudali a Thiesi e a Santulussurgiu nel 1800, in Gallura nel 1802, venivano repressi. I moti segnavano però una svolta nella politica della monarchia sabauda che, data la situazione, attuava una serie di riforme a vantaggio dei vassalli; e si rafforzavano in questo modo la fedeltà degli stessi vassalli alla monarchia e il concetto di un sovrano inteso paternalisticamente. Nell'aprile del 1799 veniva emanato un editto contro gli abusi dell'amministrazione della giustizia; attraverso l'editto la procedura giudiziaria veniva riordinata e la scelta degli ufficiali di giustizia, che fino ad allora venivano nominati nei feudi dei vari signori, veniva sottoposta al potere centrale; l'operato degli ufficiali, succubi dei feudatari, passava inoltre sotto il controllo del governo e ai feudatari veniva tolta la possibilità di commettere arbitrii attraverso persone di loro fiducia. L'editto fu seguito da una serie di riforme, quali quella della creazione delle Prefetture, utili a una più spedita attività giudiziaria e a un controllo della condotta degli ufficiali di giustizia. Nel settembre del 1799 veniva poi emanato un altro editto al fine di limitare gli abusi tributari; per la prima volta si istituiva una Regia Delegazione con il compito di esaminare le contestazioni sui tributi feudali, le controversie sorte fra feudatari e vassalli circa il pagamento dei diritti. La Reale Udienza, che fino ad allora avocava a sé tali controversie, le lasciava alla nuova speciale Delegazione, il cui operato doveva essere sottoposto all'approvazione del sovrano. Infine un terzo editto, emanato nell'agosto del 1800, stabiliva nuove norme sui comandamenti dominicali e imponeva ai vassalli la prestazione della loro opera al servizio del signore per una sola giornata e soltanto dentro il feudo con diritto a un compenso o agli alimenti. L'editto aboliva anche le prestazioni richieste in sostituzione dell'incarica o degli stessi comandamenti e garantiva l'uso degli ademprivi a tutti i vassalli. Le riforme contenevano alcuni rimedi abbastanza concreti, ma il peso dei tributi, che non era stato diminuito, veniva reso grave da una serie di carestie che colpivano l'isola nel primo ventennio dell'Ottocento. I mali del passato dovuti all'arretratezza dell'agricoltura e della pastorizia erano sempre vivi. E spesso i feudatari preferivano sviluppare la pastorizia, dedicarsi al facile allevamento, anziché rischiare grossi capitali nelle colture. La classe feudale fu così contraria all'editto delle chiudende, emanato nel dicembre del 1820, con l'intento di stabilire i confini delle proprietà, i diritti immobiliari di ciascuno e di incrementare la produzione delle terre. L'editto, applicato male perché nell'isola non esisteva un catasto, né esistevano documenti relativi agli immobili, fu causa di molti abusi; appezzamenti da rispettare, corsi d'acqua, strade, sentieri, fonti riservate a tutti, finirono con l'essere recintati, pur essendo tutto ciò vietato. I pastori si trovarono senza pascoli e insorsero, soprattutto nel nuorese, demolendo le chiusure e dando adito ad una lotta sanguinosa tra loro e gli agricoltori. I terreni del demanio feudale non erano stati contemplati dall'editto e, mentre i vassalli poveri furono danneggiati e i ricchi, i più forti, poterono esercitare la prepotenza e compiere abusi a loro vantaggio, la posizione dei feudatari rimase immutata. Le riforme di Carlo Felice, che culminarono con la codificazione del 1827, non portarono un contributo decisivo alla soluzione del problema, che presentava ancora molti lati negativi e che fu affrontato da Carlo Alberto; l'abolizione del feudalesimo, da lui attuata, non scaturì dalla volontà popolare, ma avvenne attraverso leggi dello Stato che i tempi consentivano. Il feudalesimo cadeva così in Sardegna, dopo cinque secoli di vita, per concessione sovrana. Tra il 1835 e il 1838 venivano emanati i vari provvedimenti utili alla scomparsa del regime feudale; da prima, nel dicembre del 1835, veniva istituita una Regia Delegazione con il compito di raccogliere per ciascun feudo, in base alla denuncia dei vari feudatari, l'insieme dei dati relativi ai diritti, ai redditi e alla consistenza di ogni territorio; poi, nel maggio del 1836, lo Stato, mediante un indennizzo ai feudatari, sottraeva loro la giurisdizione e l'avocava a sé; inoltre, nel giugno del 1837, venivano abolite tutte le prestazioni e veniva nominata una nuova Regia Delegazione con l'incarico di stabilire il corrispettivo dei diritti dovuti ai feudatari; infine, venivano emanate norme che regolavano il riscatto a favore dei privati e dei comuni e la procedura da seguire per gli eventuali ricorsi contro le Regie Delegazioni. I compensi assegnati ai feudatari per il riscatto, spesso più elevato del valore del loro feudo, furono corrisposti in cartelle di rendita al 5% del debito pubblico e talvolta con la cessione di immobili. Ma la liquidazione gravò soprattutto sugli abitanti dei comuni, e dal riscatto trassero vantaggio in modo particolare i feudatari spagnoli, che erano i maggiori dell'isola e che in sette possedevano diciotto feudi con centottanta villaggi. Si pensava allora che l'abolizione del feudalesimo avrebbe fatto risorgere la Sardegna; era un primo passo, il quale non poteva sanare di colpo le tristi condizioni che si erano formate nei secoli, ma era senza dubbio l'inizio di una grande trasformazione sociale. La soppressione del regime feudale, oppressivo e basato sugli arbitrii, impostato male da dominatori intenti ad affermare il loro potere politico prima e il loro predominio economico poi, rivolti a sfruttare l'isola più che a sollevarne le sorti, apriva – è vero – nuovi problemi da risolvere accanto a quelli già esistenti, relativi all'agricoltura e alla pastorizia e al regime delle terre, ma avviava la popolazione dell'Isola, che per secoli era stata passiva e supina, verso nuove, migliori condizioni. IL FEUDALESIMO IN SARDEGNA
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