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I sardi e la Rsi.

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Van Hanegem
view post Posted on 30/4/2010, 19:30




Diecimila sardi a Salò, un libro rompe il tabù
Lo studioso Angelo Abis ricostruisce una pagina di storia sinora ignorata.


Furono diecimila i sardi che aderirono alla Repubblica di Salò (Rsi). Un numero consistente e ben superiore ai sardi che combatterono nella Resistenza. In gran parte militari, di quei 60-70 mila che all’indomani dell’8 settembre si ritrovarono di fronte alla drammatica scelta: aderire alla Rsi o finire nei lager nazisti. Molti erano sbandati sui vari fronti di guerra, soprattutto nei Balcani, o nella penisola. Chi non veniva subito catturato dai tedeschi doveva decidere se darsi alla macchia tentando di unirsi ai partigiani oppure far parte del nuovo esercito fascista. Numerosi arrivarono in qualche modo a Civitavecchia per cercare di rientrare in Sardegna dove i tedeschi si stavano ritirando senza combattere, ma non trovarono possibilità di imbarcarsi. Oltre ai militari si conta qualche migliaio di civili al Nord impiegati nell’amministrazione pubblica e che costretti o per propria decisione si arruolarono nella repubblica sociale. «Non vi è dubbio che da un punto di vista quantitativo la partecipazione dei sardi al fascismo repubblicano fu rilevante. Ma ciò che desta sorpresa è la presenza qualitativa: a scegliere furono il più grande musicista sardo del Novecento, Ennio Porrino, e il maggiore pittore Giuseppe Biasi, morto tragicamente. E poi intellettuali, giornalisti, sindacalisti e militari di prestigio quali il generale Giuseppe Solinas. Comandante della divisione Granatieri di Sardegna dopo l’armistizio Solinas non solo si defila, ma organizza la difesa di Roma contro i tedeschi. Dopo la fuga del re decide di stare con ciò che resta delle istituzioni e va con la Rsi». A raccontare una pagina sinora inedita o volutamente ignorata dalla storiografia contemporanea è il ricercatore cagliaritano Angelo Abis nel libro L’ultima frontiera dell’onore, i sardi a Salò (edizioni doraMarkus, pagine 181, euro 15). Appena uscito è stato presentato a Sassari e Cagliari dagli storici Aldo Borghesi (Istituto regionale per la Resistenza) e Giuseppe Parlato, dell’università di Roma. Un documentato volume che si propone come il primo studio su un argomento scottante e sino a ieri quasi tabù.

Revisionismo. Oggi che diversi storici (anche non accademici) e autorevoli giornalisti come Giampaolo Pansa stanno rivisitando la storia della Resistenza liberi dagli schematismi ideologici del passato, si può parlare con distacco critico di quei sardi “dimenticati” o “bollati” perché repubblichini. Angelo Abis ha cominciato a coprire quel “buco nero” di oltre mezzo secolo di studi. Il suo lavoro non è un libro di storia ma di di storie di uomini. Raccoglie fatti di persone, legate - come emerge dalle letture delle singole biografie – non tanto dall’ideologia quanto dall’essere sardi. Così si ritrovano armati l’uno di fronte all’altro uomini che riescono a parlarsi e a capirsi per la loro sardità, un fattore che va oltre schieramento.
Abis ha ricostruito le biografie di politici quali il prefetto Francesco Maria Barracu, che fu fucilato e poi appeso a Piazzale Loreto insieme a Mussolini, e il giornalista – scrittore Edgardo Sulis di Villanovatulo che a Salò divenne responsabile della propaganda. Numerosi i militari: i cagliaritani generale Enrico Adami Rossi, il capitano Guido Alimonda e il tenente Achille Manso, il tenente di Sant’Antioco Giovanni Biggio, il colonnello dorgalese Bartolomeo Fronteddu eroe della prima guerra. E c’è anche una donna, la nuorese Pasca Piredda. Imparentata con Grazia Deledda, fa parte di una famiglia sardista e antifascista: il che –racconta Abis- non le impedisce di intraprendere un percorso che la porta a diventare dirigente femminile del Guf (la gioventù universitaria fascista). Attraverso varie vicissitudini, degne di un romanzo, Pasca Piredda si arruola nella famosa X Mas comandata dal principe Junio Valerio Borghese che la incarica dell’ufficio stampa. Processata nel dopoguerra e assolta, è morta proprio quest’anno a Roma. Angelo Abis ripercorre la storia del battaglione tutto sardo denominato “G. M. Angioy” e costituito, fatto singolare, dal cappellano padre Luciano Usai che andò a prendersi i volontari uno a uno nelle carceri e nelle caserme del Lazio.
Due militari del battaglione, il celebre tenore Gavino Deluna (detto l’usignolo di Padria) e il sergente dei carabinieri Pasquale Cocco, furono arrestati dai tedeschi e fucilati alla Fosse Ardeatine.

500 nomi. «In mancanza di documenti la mia ricerca – spiega lo studioso – si è sviluppata soprattutto sulla raccolta di fonti orali, di notizie apprese dalla viva voce di familiari e testimoni». Nel libro figura l’elenco di 500 nomi di “sconosciuti” che si arruolarono nella Rsi con indicato il destino di ciascuno: uccisi in combattimento o fucilati, morti in agguati o incidenti, processati e condannati, finiti in carcere oppure deceduti nel dopoguerra in seguito a malattie e sevizie.
Cinquecento sui diecimila stimati da Abis: «Questa cifra –afferma- è il risultato di una interpolazione statistica che parte da alcuni dati certi: sappiamo che i sardi catturati dai tedeschi furono almeno 20 mila ai quali si aggiungono altri 40-50 mila sbandati nei territori occupati dai nazisti. Confrontandoli con i numeri generali accettati dagli storici si arriva a quel dato». Un capitolo, questo, che non mancherà di far discutere. A rivelare l’originalità del lavoro di Abis e l’importanza del suo libro nell’attuale panorama storico è Giuseppe Parlato, allievo di Renzo De Felice: «Sino agli anni Novanta la storiografia sul fascismo si concentra sui fatti nazionali, perché visto come un fenomeno centrale. Invece ci sono declinazioni particolari e locali molto differenti. Una cosa è il sardofascismo, autonomista, nato dall’esperienza della trincea della prima guerra e dalla forte identità regionale, altri sono i fascismi che si sviluppano in Toscana, a Roma o a Milano. Oggi con lo studio di Abis e con altri che stanno venendo fuori riguardo alla repubblica di Salò si ribalta la storiografia tradizionale che inizia sempre da una storia generale. Qui succede il contrario, partiamo dalle storie locali per arrivare domani a poter ricostruire una storia della Rsi senza preconcetti»
De Felice. Il docente romano ricorda che De Felice è scomparso nel 1996 mentre si accingeva a scrivere l’ultimo volume della sua monumentale opera su Mussolini, proprio quello che avrebbe riguardato Salò.«Lui aveva tutto nella sua mente, non ci ha lasciato documenti e tracce», sottolinea Parlato: «A sostenere che si trattò di una guerra civile per primo è stato Claudio Pavone nel 1992: sino ad allora lo diceva solo Giorgio Pisanò che essendo un ex repubblichino non veniva neppure considerato. Se i fascisti erano incivili, si ironizzava, come si poteva parlare di guerra civile?». Secondo Parlato tre furono le ragioni che spinsero i sardi ad arruolarsi nella Rsi: «L’onore, soprattutto fra i militari che nella confusione generale non vollero cambiare parte. In particolari tra i sardi era alto il senso dello Stato. Per i vecchi fascisti, quelli della prima ora, della marcia su Roma, degli squadristi, del fascismo sardista e antiborghese, la Rsi rappresentò una rivincita su chi aveva portato allo snaturamento e allo sfascio del regime. Infine – conclude Parlato – i giovani appartenenti al Guf, gli unici ad avere un progetto politico, che credevano nei tedeschi e nell’Europa».

I sardi. La scelta dei sardi fu caratterizzata da altri due elementi: l’autonomismo e la componente sociale antiborghese, come testimoniano i numerosi sindacalisti e operai che aderirono alla Rsi. Il Libro di Abis ha il merito di aprire una strada e un dibattito per arrivare – come dice Parlato – a scrivere una storia condivisa. «Dare voce a chi è stata negata», sostiene l’editore sassarese Paolo Buzzanca, ex consigliere regionale ed esponente del partito radicale. Che l’editore sia dichiaratamente di sinistra, ma altrettanto “libero” da vincoli di partito, è un fatto significativo. Forse ora anche le università sarde dovranno cominciare a rompere tabù ormai superati dalla cronaca.


www.iltamburinosardo.it/sardi_a_salo.html

I dannati della storia: i sardi a Salò

Quando si parla di Rsi, cioè della Repubblica sociale italiana, si percorre una strada irta di ostacoli: da una parte bisogna mettere nel conto il confronto-scontro con tutti coloro i quali vorrebbero cancellare anche solo il ricordo dei seicento giorni di Salò, dall’altra ci si deve, invece, sforzare di dare una lettura non ideologica di quegli eventi. A quest’ultimo risultato sarebbe probabilmente giunto Renzo De Felice, ma la prematura morte del grande storico reatino, avvenuta nel 1996, ha momentaneamente interrotto un dibattito storiografico molto ampio e coinvolgente, iniziato peraltro nel 1992 a seguito del saggio di Claudio Pavone, Una guerra civile. Saggio storico sulla moralità della resistenza (Bollati Boringhieri).

A tredici anni dalla morte di De Felice, comunque, le cose sono cambiate; e qui segnaliamo, tra gli altri, almeno due importanti ricerche: quella di Luigi Ganapini e di Roberto Chiarini, che affrontano il problema senza la paura di rischiare l’accusa di volere rivalutare la Repubblica sociale italiana. Il saggio di Ganapini (La repubblica delle camicie nere,Garzanti, 1999), pone sul piatto almeno un’importante questione: l’impossibilità di cancellare dalla storia d’Italia il periodo saloino il quale, se anche non può costituire una memoria condivisa, non solo non può essere isolato nella coscienza del paese ma deve essere inserito all’interno di una ricostruzione storica che valuti i motivi per cui molti ragazzi hanno creduto e sono morti durante il crepuscolo di Mussolini. Come già detto, è sicuramente di fondamentale importanza anche il recentissimo saggio di Roberto Chiarini, L’ultimo fascismo (Marsilio, 2009), nel quale lo storico chiede che non venga tenuto “in piedi lo steccato contro i vinti” e che la guerra civile venga finalmente affrontata non in chiave polemica, ma che sia il frutto di riflessioni aliene da intendimenti di pedagogia politica. Non capire le ragioni di chi si schierò per il fascismo, per Chiarini, ha avuto come effetto “l’auto-assoluzione in blocco degli italiani che nel fascismo sono cresciuti, nel fascismo (in maggioranza) si sono riconosciuti e, una volta finalmente disamoratisi alla luce delle tragedie individuali e collettive sopportate, hanno preferito scaricarlo sul conto di altri pochi piuttosto che caricarlo sulla propria coscienza, attuando in tal modo un colossale lavacro delle proprie responsabilità di cittadini e di democratici”.

Non bisogna schiacciare, dunque, sotto un giudizio etico-politico i fenomeni che si vanno studiando e lasciar parlare i fatti. Questa è una lezione che Angelo Abis, il quale per la sua storia personale avrebbe potuto far gravare sulla sua ricostruzione storica un punto di vista passionale ed emotivo, ha di fatto recepito nel suo “L’ultima frontiera dell’onore. I sardi a Salò” (doraMarkus, 2009, euro 15,00). Abis, con questo lavoro, indaga su una pagina ancora sconosciuta della Sardegna, arrivando a conclusioni del tutto inattese: circa 10.000 sardi aderirono alla Repubblica di Salò, il doppio rispetto a quanti invece presero parte alla Resistenza. Il saggio, insomma, si presenta in maniera speculare ai volumi pubblicati negli anni Ottanta e dedicati all’antifascismo isolano e lo si può certo considerare un utile contributo alla ricostruzione, tuttora lacunosa, dell’album di famiglia dei sardi usciti dalla dura esperienza della guerra civile.

Per valutare il libro di Abis, comunque, serve adottare le chiavi di lettura che egli stesso ci offre: da un lato informare, dall’altro interpretare e spiegare. Sul primo di questi versanti, Abis è abbastanza chiaro: è vero che sull’adesione di molti illustri sardi alla Rsi si sapeva già tutto (Giuseppe Biasi ed Ennio Porrino,ad esempio), ma è anche vero che tali conoscenze sono sempre state riservate a piccole elites di storici che hanno deciso se e quanto divulgare.

Quanto invece all’interpretazione degli eventi, le motivazioni dell’adesione di circa diecimila sardi alla Repubblica sociale, lo scenario è meno univoco e chiaro, perché nessun criterio oggettivo potrà mai imporsi alla percezione che ciascun soggetto ebbe, in quei giorni, delle proprie ragioni e dei torti altrui. Su questo versante ci aiuta non poco la prefazione di Giuseppe Parlato, storico dell’Università di Roma, a cui si deve un importantissimo studio, edito da Il Mulino, sulle origini del neofascismo italiano (Fascisti senza Mussolini, Il Mulino). Perché, si chiede Parlato, in una Sardegna che «visse in sordina le vicende del fascismo repubblicano, del movimento partigiano, della lotta fratricida» ci fu un’adesione tanto ampia alla Rsi? Le motivazioni sono molteplici ma presentano caratteristiche alquanto singolari.

Nell’ultimo fascismo Il rivoluzionarismo riemerse in forme radicali e confuse e portò avanti, assieme alle istanze socializzatrici e repubblicane, anche la rivendicazione dei valori legati alla tradizione militare: la patria, l’onore, la fedeltà ai principi del fascismo, la fedeltà all’alleato tedesco. I sardi che aderirono alla Repubblica sociale italiana erano in maggioranza militari che decisero di non disertare, ma se i valori tradizionali costituirono un denominatore comune, l’adesione dei sardi presentava, come si diceva, una sua particolare peculiarità per la presenza dell’autonomismo e dell’antiborghesia. «L’idea che quella del sardofascismo fosse una soluzione ottimale – scrive Parlato – combinando autonomismo, sensibilità sociale, spinte rivoluzionarie nel quadro di un riferimento leale al fascismo, rimase presente ma sotterranea in molti esponenti del fascismo isolano». Autonomismo e rivoluzione, verrebbe voglia di dire con un facile schematismo, e le posizioni di rilievo raggiunte nella Rsi da personaggi come Paolo Orano, sindacalista rivoluzionario; Ugo Manunta, sindacalista e socializzatore; Stanis Ruinas, fascista di sinistra, sembrerebbero avvallare questa ipotesi. Ma il discorso ci porterebbe molto lontano. Il libro di Abis, in definitiva, getta una nuova luce su quei lontani eventi, con l’auspicio che gli avvenimenti del 1943-1945 non continuino a pesare sul capitale di legittimazione degli attuali attori politici di un’Italia ormai entrata nel XXI secolo.

www.iltamburinosardo.it/abis_sassari.html

Paolo Pili e il fascismo sardo

La vita del massimo esponente del sardo-fascismo, dall'accordo con Emilio Lussu alla stima del Duce


Il termine "sardo-fascismo", secondo l'accezione storiografica più recente, sta ad indicare la particolare connotazione che assunse il fascismo sardo allorché si verificò, nel 1923, la cosiddetta "fusione", cioè la confluenza di gran parte del Partito Sardo d'Azione nel Partito Fascista. Il termine "sardo-fascismo" rappresenta un ribaltamento pressoché totale delle interpretazioni storiche del fascismo in Sardegna, quasi costruite sul dogma del fascismo come "fenomeno d'importazione", totalmente estraneo alla mentalità e ai problemi del popolo sardo, fieramente combattuto dall'unica vera forza politica di massa regionale, quale era il movimento sardista, descritto come forza democratica, riformista e autonomista con a capo una figura quasi mitica: Emilio Lussu, vittima illustre del fascismo, fuoriuscito in Francia dopo una rocambolesca fuga dal confino di Lipari.
Dette interpretazioni furono correnti fino alla prima metà degli anni sessanta, allorché Luigi Nieddu pubblicò il volume "Origini del fascismo in Sardegna", del 1964. Nieddu fu il primo a trattare, in termini ampi e problematici, il problema dei combattenti, del sardismo, del fascismo e della fusione dei due movimenti. Nieddu prese spunto dall'unica opera di parte ex fascista, "Grande cronaca minima storia" di Paolo Pili, che il massimo esponente del sardo-fascismo pubblicò nel 1946. Opera che fu ignorata dagli storici per decenni, ritenendola non attendibile e di parte. Nello scritto "Il sardo-fascismo nelle carte di Paolo Pili - contributo per una storia della questione sarda", Leopoldo Ortu, nel 1989, ebbe a dire «Taluno potrebbe affermare, probabilmente, che quel filone (il sardo-fascismo) era stato già aperto da prima [...]; precisamente dal numero 9/10 della rivista "Il ponte", dedicato alla Sardegna nell'ormai lontano 1951, cui spesso molti si rifanno ancora. Ma, a ben vedere, quel numero monografico non può essere considerato una ricostruita storica vera e propria.
Scrissero in quel modo per confutare l'interpretazione che era stata offerta nell'immediato dopoguerra, dalla "Grande cronaca minima storia", opera di Paolo Pili, con il quale essi avevano proceduto in costante armonia - non trascurabile fatto - nella fase che potremmo definire "eroica" (o forse addirittura "mitica"?) del sardismo, quella appunto precedente al fascismo. Poi, una volta compiutasi completamente la fusione, non prima, lo rinnegarono, ribadendo ed ampliando la condanna dopo la seconda guerra mondiale. In ogni caso l'opera di Pili rimane ricca di elementi e di spunti ancora validi.
Effettivamente del libro di Pili si parlò abbastanza poco nei decenni successivi, poco si volle dire sul sardo-fascismo e nulla sull'uomo sotto il profilo storico, oppure si espressero valutazioni che vanno dal vago al negativo ed appartengono esclusivamente ad una dimensione etico-politica molto soggettiva e di parte. Al contrario si era dinanzi ad una figura eminente di protagonista [...]. Insomma anche in campo regionale non si volle parlare di sardo-fascismo [...]. Si voleva mantenere una silenziosa cortina di ostracismo, variamente costruita, attorno alla sua persona e alla sua opera, come pure attorno al suo libro, che fedelmente la raccontava, opponendogli la figura di Emilio Lussu». Nella fusione tra sardisti e fascisti può definirsi come una mera operazione di tatticismo politico, o peggio, come ennesimo esempio di una clientela che modula il proprio atteggiamento politico in relazione ai favori e alle prebende che si possono ottenere dal nuovo governo in carica.
Secondo lo storico meridionalista Giuseppe Barone: «L'anomalia o la caratteristica del fascismo sardo è, come sappiamo, la confluenza del sardismo, o meglio di una parte di esso, nel fascismo. Due forze antisistema in opposizione al notabilato locale, con forti elementi di differenziazione [...], ma anche con molti elementi di omogeneità. A unire combattentismo e fascismo erano certamente la critica alla democrazia parlamentare, una forte vena antisocialista, antioperaia e antiproibizionista e soprattutto una fortissima polemica anticlericale contro le vecchie consorterie: vi erano tutte le condizioni perché sardismo e fascismo unissero i loro sforzi per disarticolare il vecchio blocco di potere e chiudere con l'esperienza politica del trasformismo».
Luciano Marrocu in proposito scrive: «Il fascismo mette radici in Sardegna solo all'indomani della marcia su Roma [...]. Come altrove nel mezzogiorno, il fascismo si afferma dunque per via prefettizia, utilizzando l'influenza e il prestigio del suo recente insediamento al governo. Qui tuttavia, è possibile individuare anche la sua più spiccata peculiarità. Non solo il combattentismo isolano ha i nemici e le caratteristiche di un grande movimento di massa, ma, dando vita nel 1921 al Partito Sardo D'Azione senza nulla perdere del suo radicamento popolare, ha assunto una fisionomia che ne fa l'interprete più incisivo della politica. Sardismo e fascismo, d'altra parte, muovendosi su un terreno per alcuni aspetti comune (il virulento antigiolittismo, il richiamo all'esperienza di guerra) si contendono il favore delle stesse aree sociali e d'opinione.
La "fusione" non si compie certo su basi partitarie, ma non è neppure la resa senza condizioni di cui ha parlato una gran parte della storiografia antifascista. Gli anni immediatamente successivi vedranno molti ex sardisti occupare posizioni di primo piano negli assetti politici che il nuovo regime va creando (sino a costituirne una componente dotata di una precisa fisionomia), e ancora negli ultimi anni trenta saranno numerosi i gerarchi isolani che hanno alle spalle un passato sardista».
Marrocu fa coincidere la fine dell'esperienza sardo-fascista con la caduta di Pili avvenuta alla fine del 1927. Caduta determinata dalla dura ostilità manifestata nei suoi confronti da alcuni gruppi politici locali, segnatamente sassaresi, in combutta con gli industriali caseari, il cui potere e i cui interessi Pili aveva pesantemente intaccato guidando il movimento cooperativo dei pastori e la federazione delle latterie locali per un intervento nella formazione del prezzo del latte.
C'è da aggiungere che l'insanabile contrasto fra Pili e il Partito Fascista non impedì a Mussolini di fare di tutto affinché Pili si occupasse della creazione del porto franco di Cagliari, e addirittura di officiarlo nel 1943 per l'incarico di alto commissario per la Sardegna.
A noi appare tuttavia riduttivo chiudere l'esperienza sardo-fascista negli anni venti. Se è vero che l'originario progetto di sviluppo sardista - incentrato sul potenziamento e l'ammodernamento delle attività economiche specificatamente isolane quali l'agricoltura, la pastorizia e l'artigianato - entrò in crisi non tanto e non solo perché sabotato o quanto meno sostenuto dal governo fascista, quanto per le conseguenze, estremamente negative per la Sardegna, della grande crisi che investì l'economia mondiale nel 1929, è altrettanto vero che altre coordinate del bagaglio ideologico sardo-fascista rimasero in piedi per tutta la durata del fascismo: sviluppo economico e sfruttamento delle risorse locali, rivendicazione di una propria storia nazionale, di una specifica identità culturale ed artistica da salvaguardare e da far valere anche nei confronti della cultura nazionale, una proiezione politica dei propri interessi verso il sud dell'Europa, cioè nel Mediterraneo, piuttosto che verso l'Europa continentale.
Una breve biografia di Paolo Pili...

Paolo Pili nacque a Seneghe il 20 ottobre 1891. Figlio di medi proprietari terrieri, si diplomò nel 1909 come perito agrario nell'allora "Scuola di viticultura ed enologia" di Cagliari (l'attuale Istituto Agrario), avendo come maestro Sante Cettolini, personaggio oggi completamente dimenticato, ma che agli inizi del Novecento fu, come dice Pili, «il combattente più valoroso nella lotta dei Sardi, contro l'abbandono, lo sfruttamento e la miseria».
Richiamato per la Prima Guerra Mondiale, fu inviato nell'isola di La Maddalena. Nel primo dopoguerra emerse subito come uno dei capi del movimento dei combattenti, e nel 1922 diventò direttore regionale del P.S.d'AZ.. Inizialmente contrario alla fusione col partito fascista, fusione iniziata e voluta da Emilio Lussu, proprio su richiesta di questi la portò a termine dopo lunghe trattative con il prefetto, generale Gandolfo, delegato ad hoc dallo stesso Mussolini.
Nel 1923 divenne segretario del P.N.F. per la provincia di Cagliari e nel 1924 fu eletto deputato. In tale veste presentò un piano per richiedere al governo lo stanziamento di un miliardo da utilizzare in opere pubbliche da realizzare in Sardegna in dieci anni. Riuscì a convincere Mussolini e il finanziamento fu approvato il 3 novembre del 1924. Le opere ebbero inizio e continuarono per tutto un decennio: così si ampliò per tutta l'isola la rete stradale, fu potenziato il porto di Cagliari, quello di Carloforte e altri minori, vi fu per moltissimi comuni l'approvvigionamento dell'acqua potabile. Si costruirono scuole, asili, cimiteri e fu istituito, prima vera struttura amministrativa autonomistica, il provveditorato alle opere pubbliche per la Sardegna. Contemporaneamente Paolo Pili andava organizzando i pastori nelle praterie sociali, cercando di liberarli dal monopolio del commercio degli industriali caseari.
Con lo stesso principio organizzò un movimento cooperativo dei produttori di grano, fu anche solerte animatore di cantine e oleifici sociali e a lui pure si deve la creazione delle casse comunali di credito agrario. Per incrementare l'esportazione del formaggio pecorino, Pili nel 1926 si recò negli U.S.A., dove concluse contratti vantaggiosissimi per i produttori sardi. Tutto ciò gli attirò l'ostilità di consistenti gruppi industriali in combutta con ambienti fascisti, segnatamente sassaresi, che, con l'aiuto del segretario nazionale del P.N.F., Augusto Turati, riuscirono ad esautorarlo. Prima si dovette dimettere da direttore de "L’Unione Sarda" e, nel novembre del 1927, da segretario della federazione fascista di Cagliari.
Infine, avendo sfidato a duello il deputato Putzolu, suo ex amico e compaesano, fu espulso dal partito nel 1929. Ancora nel 1933 chiese invano di esservi riammesso. Non per questo cessò la stima che Mussolini aveva di lui, tanto da officiarlo per occuparsi della creazione del porto franco di Cagliari e, addirittura alla fine del 1942, per affidargli l'incarico di alto commissario per la Sardegna.
Nel 1944 fu arrestato, imprigionato e condannato a scontare un anno di confino. Nel 1946 pubblicò l'unica opera memorialistica di un certo respiro di parte ex fascista, "Grande cronaca piccola storia". Mori a Oristano nel 1985.
... e la bibliografia sul sardo-fascismo

- Atti del convegno "Il sardo-fascismo fra politica, cultura, economia" (Cagliari, 26/27 novembre 1993) - Ed. Fondazioni Sardinia.
- Francesco Atzeni e Lorenzo Del Piano: "Intellettuali e politici tra sardismo e fascismo" (Cagliari, 1993) - Quec editrice.
- Leopoldo Ortu, "Il sardo-fascismo nelle carte di Paolo Pili" (Cagliari, 1989) - estratto dall'Archivio Storico Sardo.
- Luigi Nieddu, "Dal combattentismo al fascismo in Sardegna" (1979) - Edizione Vangelista.

www.vicosanlucifero.it/excal/excal36/ex36-09.html

Ancora sull'argomento

http://www.partitosardodazione.it/partito-...x?m=53&did=1221
 
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view post Posted on 30/4/2010, 19:38
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Articoli molto interessanti, Van. Chi ha fatto disinformazione a riguardo è stato Lussu, esaltato soprattutto da una certa parte politica.
 
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GIUSEPPE MAZZINI
view post Posted on 30/4/2010, 20:22




quale disinformazione ha fatto lussu,peppero ? illuminami
 
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view post Posted on 30/4/2010, 23:02
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Ad esempio in alcuni suoi scritti faceva intendere che nell'isola di Sardegna il fascismo fosse seguito da quattro gatti quando invece questo era un movimento ben radicato, soprattutto apprezzato dal popolo. La malaria, uno dei problemi principali, era stata ridotta grazie alle grandi bonifiche. C'erano stati risanamenti e ripopolazioni, la lotta al banditismo e persino i pastori guadagnavano bene. Le camicie nere infatti nascevano grazie alla lana nera locale, l'orbace. Lussu però, oltre a non voler vedere queste cose -reali, positive e tangibili- da spazio alla fantasia e descrive le cose in modo diverso. Soprattutto negativo.
 
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Van Hanegem
view post Posted on 30/4/2010, 23:05




In Sardegna erano tutt'altro che quattro gatti i fascisti.
 
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eveline1
view post Posted on 1/5/2010, 11:54




CITAZIONE (Van Hanegem @ 1/5/2010, 00:05)
In Sardegna erano tutt'altro che quattro gatti i fascisti.

NON BESTEMMIARE..... :sick:

CITAZIONE (Peppero @ 1/5/2010, 00:02)
Ad esempio in alcuni suoi scritti faceva intendere che nell'isola di Sardegna il fascismo fosse seguito da quattro gatti quando invece questo era un movimento ben radicato, soprattutto apprezzato dal popolo. La malaria, uno dei problemi principali, era stata ridotta grazie alle grandi bonifiche. C'erano stati risanamenti e ripopolazioni, la lotta al banditismo e persino i pastori guadagnavano bene. Le camicie nere infatti nascevano grazie alla lana nera locale, l'orbace. Lussu però, oltre a non voler vedere queste cose -reali, positive e tangibili- da spazio alla fantasia e descrive le cose in modo diverso. Soprattutto negativo.

Chiariamo,in onore della dubbiosita' di Mazzini.L'orbace altro non e'che un antico tessuto ottenuto con lana grezza e spessa che serviva ai pastori per proteggersi dai rigori invernali.Era di lana "grezza" vale a dire che il suo colore era quello tipico del vello,beige scuro.SICURAMENTE NON NERO.Poteva diventarlo,se tinto,come qualsiasi altra fibra narutale.

CITAZIONE (GIUSEPPE MAZZINI @ 30/4/2010, 21:22)
quale disinformazione ha fatto lussu,peppero ? illuminami

Mazzini che domande:quella dell'Uomo che ha vissuto un'esperienza ma stranamente ne sa meno di chi la racconta.I posteri :pessimi redattori di sentenze.

 
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Van Hanegem
view post Posted on 1/5/2010, 11:55




Poi ci sono i fascisti rossi, Eveline.
Terminologia non mia ma di Giorgio Amendola.
 
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eveline1
view post Posted on 1/5/2010, 12:17




Leggiamoci allora Cardia.
Ed in particolare:

- "Paura di essere liberi",tratto da :"Il lavoratore: settimanale comunista sardo"del 1974;

- "Sardi e Resistenza nella temperie del dopoguerra tratto da :"Argentaria: periodico mensile dell'associazione di cultura Lao Silesu" Anno 1993.

(Sono brevi,si possono leggere.Io l'ho fato un po' di tempo fa.Ricordo di averli trovati interessanti)
 
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view post Posted on 1/5/2010, 15:04
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CITAZIONE (eveline1 @ 1/5/2010, 12:54)
Chiariamo, in onore della dubbiosita' di Mazzini. L'orbace altro non e'che un antico tessuto ottenuto con lana grezza e spessa che serviva ai pastori per proteggersi dai rigori invernali.
Era di lana "grezza" vale a dire che il suo colore era quello tipico del vello, beige scuro. SICURAMENTE NON NERO. Poteva diventarlo, se tinto,come qualsiasi altra fibra narutale.

Santa pazienza, qui finisce come per la storia di pabassinas. Cara eveline, mai sentito parlare dell'orbace delle pecore nere di Arbus? Erano dette: "le pecore delle camicie nere". Ecco qualcosa che non sai: "il mantello è di colore nero e può assumere sfumature grigio piombo. La lana è di tipo grossolano aperto, con bioccoli appuntiti. La pelle è sottile, elastica e di colore nero".

image




CITAZIONE (eveline1 @ 1/5/2010, 12:54)
Mazzini che domande: quella dell'Uomo che ha vissuto un'esperienza ma stranamente ne sa meno di chi la racconta. I posteri: pessimi redattori di sentenze.

Anche qui, bisognerebbe documentarsi meglio sul personaggio, tenendo lontano i testi della politica e ascoltando chi l'ha conosciuto per ciò che realmente era.
 
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8 replies since 30/4/2010, 19:04   1324 views
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