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Friuli - 27 febbraio 1511

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Allonsanfan
view post Posted on 3/3/2011, 19:50




Da 1511: La "crudel zobia grassa" Rivolte contadine e faide nobiliari in Friuli fra '400 e '500 di Furio Bianco(professore Udinese dotato di una buona dose di sanissimo stile :B): ), edito da Centro studi storici Menocchio - Edizioni biblioteca dell'immagine, Pordenone, 1995, pp.7, 8, 32 - 36

Sullo scorcio del 1508 il nobile Francesco Strassoldo, appartenente ad una delle più illustri casate aristocratiche friulane, intervenne nel corso di una seduta del Parlamento, pronunciando una dura requisitoria contro le proteste popolari e i sussulti di rivolta che stavano investendo un po' dappertutto i borghi cittadini, le campagne e i comprensori signorili della provincia.
"Questi nostri contadini, ausu temerario, hano facto monopolii, conventicule, et assunanze in vari et diverse ville et lochi di questa patriaa da 500, 800, de mille, doi milia et più, dove hanno inter cetera dicto et usato nefandissime et diaboliche massime, de tagliar a pezzi prelati, zentilhomeni, castellani et cittadini, et denique de far un vespro cicilian et molte sporchissime parole."
Era l'ennesima, enfatica denucnia dell'aristocrazia feudale, sempre più in difficoltà nel tentativo di circoscrivere una crescente turbolenza di massa e costretta spesso a subire, anche all'interno dei propri feudi, la violenza aggressiva e derisoria dei sudditi. Ormai da diversi anni, ad intervalli sempre più ravvicinati, si susseguivano i tumulti, gli agguati, i colòi di mano da parte di contadini che sembravano operare sulla base di una struttura organizzata per ampie circoscrizioni territoriali, con moduli tattici e strategie da milizie addestrate a guerreggiare per bande. Il più delle volte gli interventi repressivi, le intimidazioni e i procedimenti giudiziari avevano segnato il passo, mortificando l'orgoglio di quella nobiltà castellana che riconosceva come irrinunciabili i valori dell'onore, della vendetta e dell'uso delle armi per dirimere le controversie, messi a dura prova dagli umilianti e continui rovesci subiti ad opera di "turbe armate di villani".
Dopo la denuncia dello Strassoldo, alle rutilanti e rumorose contestazioni dei contadini e al dilagare di una criminalità sempre più convulsa e spasmodica, fecero seguito gravi episodi di insubordinazione collettiva, arginati e perseguiti con fatica, anche per il precipitare della situazione politica, la guerra guerreggiata e, conseguentemente, la precarietà del controllo del territorio.
Poco disposta a ridimensionare l'ampiezza delle proprie prerogative o a blandire con parziali concessioni l'animosità e le rivendicazioni delle comunità rurali, alla nobiltà feudale non restava che ricorrere al Parlamento e alle magistrature veneziane, serrando nel contempo le fila e rinsaldando i legami interni per prepararsi allo scontro decisivo che riteneva ormai imminente.
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Durante il giovedì grasso del 1511, i festeggiamenti, i balli e le mascherate programmati a Udine per l'ultima settimana di Carnevale nonostante la guerra guerreggiata e la presenza degli eserciti imperiale e veneziano, furono interrotti da una improvvisa rivolta popolare. Alcune migliaia di contadini, inquadrati nelle milizia paesane al comando di Antonio Savorgan, accorsi per difendere la città minacciata dalle truppe austriache, al ritorno da una perlustrazione del contado, si erano precipitati verso una contrada dove stavano fronteggiandosi famigli e seguaci di alcune casate nobiliari. La rissa era ben presto degenerata, cogliendo di sorpresa il rettore veneziano che la sera precedente, dopo l'ennesima zuffa fra consorterie rivali, era riuscito ad ottenere un fragile compromesso fra i capi delle fazioni. I contadini, assieme ai popolani e agli abitanti del contado, quasi rispettando un ordine convenuto, diedero in massa l'assalto ai palazzi della nobiltà feudataria e cittadina, accusate di connivenza con il nemico.
Seguirono fasi concitate e, infine, una lunga sequela di brutali linciaggi, ricostruiti e narrati a forti tinte da cronachisti e letterati, che indugiarono a lungo sugli episodi più truculenti e raccapriccianti. I palazzi in cui erano rinserrati i nobili con i loro seguaci e armigeri, dislocati in diverse contrade all'interno della città murata, addossati gli uni agli altri e comunicanti tra loro attraverso cortili e accessi interni, quasi dei ridotti fortificati, vennero ben presto forzati a colpi d'artiglieria, saccheggiati e dati alle fiamme.
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Fallita l'ennesima mediazione, lasciato cadere l'ultimo tentativo di resistenza, per quanto formale e incerto, il luogotenente veneziano fu costretto ben presto ad abdicare, assistendo inerte al dilagare delle violenze, senza poter impedire che la folla si impossessasse delle armi e delle munizioni custodite nel castello.
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Infine, in una scenografia spettrale e sinistra, tra i bagliori degli incendi, i lamenti delle vittime, le urla aggressive e derisorie dei rivoltosi, iniziarono i massacri, narrati con macabro compiacimento da Gregorio Amaseo nella sua Historia.
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Dalla città la rivolta si propagò nelle campagne, in quell'area di pianura asciutta e irrigua dove più fitto era l'intrico delle giurisdizioni feudali e i più vasti possedimenti signorili. Migliaia di contadini, "armati come alla battaglia con le artiglierie per espugnar le fortezze, seguitandovi con li carri le turbe de loro famiglie per comodità di butini", in pochi giorni misero a ferro e fuoco decine di castelli, di rocche e di palazzi patrizi.
Le fila dei contingenti in arme venivano occasionalmente ingrossati da masse di contadini di villaggi e giurisdizioni che "brandendo accette, andarono saccomando, rovinando e bruciando".
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La rivolta si allargò verso occidente, nelle giurisdizioni al di là del Tagliamento, attorno ai centri di Portogruaro e Pordenone e in quei distretti feudali dell'alta pianura dove negli ultimi decenni più aspra era stata la lotta fra signori e sudditi.
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Il governo veneziano cercò di fronteggiare la situazione inviando in Friuli Andrea Loredan, uno dei Capi del Consiglio dei Dieci. Dotato di ampi poteri, coordinando l'azione dei rettori e mobilitando le truppe al comando di Teodoro del Borgo, il patrizio veneziano riuscì ad arginare e soffocare la rivolta, tanto da poter annunciare a Venezia già l'8 marzo che le cose erano ormai "reducte in boni termini et ben sedati i tumulti in ogni banda".
 
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